Sulla mancanza di riservatezza nella campagna contemporanea

Mia cara Berenice,

mi sto godendo la campagna più del solito; i soffioni, in particolare, esercitano su di me una infantile attrattiva.

Eppure, l’infanzia è andata, volata via col vento. Un tempo, uno dei principali piaceri dell’uomo di campagna era spargere la sua acqua dorata en plein air. Ci sono ancora campagnoli che, svegliandosi di notte con l’ancestrale stimolo, abbandonano il talamo nuziale e la casa coniugale intera per fare i loro bisogni sotto la luna.

Non dico che oggi sia impossibile, ma ho dovuto constatare che è decisamente più complicato. Quella veneta è una campagna produttiva e lottizzata, ogni pendio è stato terrazzato, ogni bosco dissodato. La mancanza di veri borghi e l’organizzazione parcellizzata basata sulla casa colonica, inoltre, ha creato un reticolo di stradine un tempo sterrate, oggi costantemente e silenziosamente percorse da veicoli, pedoni, ciclisti, centauri.

A questi impedimenti moderni se ne sommano altri antichi, primo fra tutti la costante, istintiva attitudine del campagnolo a stare costantemente sul chi vive, a sentinella del podere e del circondario: può sempre esserci in agguato un raccoglitore di funghi, un escursionista impudente, un vicino pronto a rosicchiare qualche lembo di canale di scolo spostando un cippo tra l’erba alta.

Insomma, non è così facile. Bisogna essere cauti e accorti quanto un ricognitore del Viet Cong. A proposito, sto leggendo “L’americano tranquillo” di Graham Greene, un disincantato ritratto dell’Indocina Francese che già contiene la premonizione della guerra del Vietnam.

Un saluto tirandomi su la patta.

Stan

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