Mia cara Berenice,
con un paio di cari amici, mi sono abbandonato a un fine settimana di dissipazione pasoliniana tra Roma e Sabaudia. Nei desolati paraggi di quest’ultima, sorgeva un bar con l’insegna “Le sirene”, così incongrua rispetto all’atmosfera spoetizzata di provincia da restarmi conficcata in capo e ispirare il racconto allegato.
Stan
LE SIRENE
In gergo si chiamano “controlli di secondo livello”. L’algoritmo della Ragioneria Generale dello Stato estrae dall’urna un nome: il nome di qualcuno che, nell’ultimo decennio, ha ricevuto fondi dall’Unione Europea. Solitamente, si tratta di una persona giuridica, spesso un ente pubblico. Un Comune, in questo caso. Un piccolo Comune, ai confini del mondo, come una goccia d’acqua nel mare, perso in una pianura piatta e infinita. Pareva impossibile che, a un tiro di sasso da lì, oltre quelle dune color caffelatte, muggisse il mare; non solo non lo si vedeva, ma non si percepiva il salso o l’eco remoto di uno sciabordio. Per questo ti lasciavano tanto perplesso le grandi ancore montate ovunque a mo’ di decorazione o monumento, il Liceo Nautico, il Museo del Mare, il Dopolavoro della Gente di Mare, la caserma della Guardia Costiera, l’Ufficio Licenze di Navigazione.
La collega della Ragioneria Territoriale che avrebbe dovuto affiancarlo aveva marcato visita. Con la gente di quel paese, gli aveva detto al telefono, sibillina, era meglio non avere a che fare.
“Pescatori… gente ostinata…”
“Pescatori?”
“Pescatori, certo! Non lo sapeva?” E perché avrebbe dovuto saperlo?
Sotto un cielo color cartone, il paese pareva deserto, forse davvero tutti gli abitanti in età da lavoro erano per mare. In Municipio lo aspettavano il Sindaco e il Comandante della Polizia Municipale, due ragazzi pallidi dall’aria malvissuta, e l’Assessora al Bilancio, un donnone simile a una macchia d’inchiostro, con movenze da piovra. Senza nemmeno sforzarsi di simulare un minimo di cordialità, l’Assessora accennò sprezzantemente, con il triplo mento, a un fascicolo sul tavolo della Sala Consiliare. Lui lo prese in mano: era sottilissimo. La sua attenzione venne calamitata dallo stemma del Comune sulla copertina: una barca, un’ancora e…
“Cos’è questa?” Chiese. “Una freccia?”
Il Comandante diede un’occhiata consiscendente, sporgendosi al di sopra della sua spalla.
“Un arpione”.
“Un arpione?”
“Un arpione,” rimarcò rabbiosamente il Sindaco.
“Uno strumento di pesca,” sospirò l’Assessora, con il tono di chi si rivolge a uno studente poco sveglio.
“So cos’è un arpione,” si intestardì lui, “ma non si usa per pescare pesci di grandi dimensioni?”
“E allora?”
Non seppe che rispondere: che ne sapeva lui, in effetti, dei tagli di pesce? Aprì il fascicolo e un paio di documenti svolazzarono sul tavolo. Li rimise insieme, mentre i tre ospiti si guardavano ostentatamente dal dargli una mano. C’erano solo un contratto e una fattura quietanzata.
“Scusate,” chiese, “e la documentazione di gara?”
“Per un importo del genere?” Si seccò l’Assessora.
“Be’, almeno la determina a contrarre… e poi, scusi, sul contratto e sulla fattura non sono nemmeno riportati il CUP e il codice progetto…!”
Il Sindaco fece spallucce: “Ce li mettiamo ora”.
“Il CUP lo dobbiamo prendere ora, però,” lo avvertì l’Assessora.
“Non avete preso il CUP?!”
“Non abbiamo tempo da perdere, qui”.
Richiuse il fascicolo: “Sentite, temo che non siamo sulla strada giusta. Vi farò avere il mio referto, ma, sinceramente, dubito che qui si riesca a sanare tutto”.
“Che significa?” Scattò il Comandante, aggressivo.
“Che vi verrà tagliato parte del finanziamento”.
“Ma se l’abbiamo già speso!” Rise il Comandante.
Non ci poteva credere: gli aveva riso in faccia.
“Be’,” gli comunicò, con un certo compiacimento, “allora dovrete restituirlo”.
Il Comandante posò la mano sinistra sul fianco e la mano destra sulla fondina della pistola, respirando pesantemente. L’Assessora strabuzzava spasmodicamente gli occhi a palla. Un vistoso tic percorreva, come una scossa elettrica, il volto ossuto del Sindaco. Volevano picchiarlo, per caso? Ma dove diavolo era capitato? Lo avrebbero sentito, al Ministero. Sarebbe andato dal sindacato e dal Direttore Generale in persona.
Improvvisamente, la cartilagine rigida del Sindaco si afflosciò: “Bene, ha detto quello che doveva dire. Deve fare un verbale o qualcosa del genere?”
“No. Come dicevo, sarà tutto nel referto che vi arriverà via PEC”.
Il Comandante indicò col braccio teso il corridoio da cui erano venuti.
“Bene. Allora credo se ne possa anche andare”.
Deglutì un arrivederci. Il pensiero di dare le spalle a quei tre era terrorizzante, ma restare un minuto di più in quella stanza era un’alternativa perfino peggiore. Attraversò a passo di corsa le poche stanze malconce del Municipio. Nell’aprire da solo l’anchilosata serratura metallica della porticina che dava sulla piazza, le sue mani tremavano incontrollabilmente. Dopo essersi richiuso l’uscio alle spalle, riuscì a respirare.
Maledetti bifolchi. Avrebbe tagliato l’intero finanziamento e controllato scrupolosamente ogni altra erogazione che avessero percepito. Poi avrebbe raccomandato un’ulteriore ispezione più approndita, magari da parte della Guardia di Finanza. Davanti alle mitragliette dei militari, sarebbero stati meno arroganti. Bifolchi maledetti. Si sentiva svuotato, gli tremavano anche le gambe. Si trascinò come una marionetta attraverso la piazza, ringraziando Iddio di essersi fatto autorizzare all’uso del mezzo proprio, cosa che gli consentiva di andarsene da quel paese di merda su due piedi.
La guida della sua vecchia auto anonima non mancava mai di rilassarlo e si ritrovò a razionalizzare. Era finito in un paesino di campagna e si era trovato davanti dei burini, tutto lì. Dopotutto, avrebbe avuto l’opportunità di vendicarsi immediatamente. Quanti potevano dire lo stesso, dopo aver incrociato sulla loro strada il bullo di turno? In novecentonovantanove casi su mille, eri costretto a ingoiare e abbozzare. No, in fondo lui era fortunato. Appena superati i confini comunali, accostò a una piazzola, scambiò qualche messaggio con la sua compagna e fu ulteriormente rinfrancato. Aveva una gran fame, anzi. Magari, se andava più sottocosta, si imbatteva in un ristorante decente che fosse aperto anche d’inverno. Guidò a tentoni verso le dune e iniziò a intravedere qualche bagliore di mare. A una svolta, un cartello che preannunciava l’ingresso nel Comune da cui era appena uscito lo colpì come un pugno alla mascella. Come era possibile? Si era perso, forse, in quel Mare Tranquillitatis? Eppure non era così strano, riflettè. Aveva guidato ormai per qualche chilometro, e i confini dei Comuni erano quanto di più assurdo e feudale si potesse immaginare. Un secondo cartello gli promise, più benevolmente, una grigliata mista di pescato del giorno a prezzi davvero modici. Si precipitò nella laterale, ma si ritrovò in un parcheggio vuoto.
Che cos’era, un trucco per attirarlo in un parcheggio vuoto e menarlo? Era sul punto di impostare un’ampia e dolce manovra di inversione di U per mantenere distesi i nervi, quando notò una sorta di gazebo nell’angolo più lontano. Si avvicinò a passo d’uomo. Era possibile che fosse quello il ristorante? Be’, si corresse, dopotutto il cartello non parlava di ristorante. Probabilmente si trattava di un gazebo che serviva i bagnanti della spiaggia dall’altra parte della strada, nel periodo estivo. Quasi certamente, chiuso in quella stagione… oppure no? I tavolini esterni erano deserti e così i due o tre all’interno, ma si vedeva inequivocabilmente una ragazza trafficare dietro il bancone. Sulle ampie vetrate trasparenti erano state tirate delle reti da pesca a mo’ di decorazione. I colori pastello dell’arredamento rendevano l’insieme raccolto e gradevole… e la ragazza, attraverso la rete, non pareva affatto male. Un’altra si intravedeva affacendata nella minuscola cucina. Un’insegna di legno dipinta di vernice azzurra annunciava che il nome del locale era “Le sirene”.
Si sforzò di contenere il suo entusiasmo. Quasi certamente, il locale non era veramente aperto. Probabilmente, stavano davanto una pulita o facendo l’inventario o chissà che altro… ma valeva la pena tentare. Parcheggiò l’auto, scese e bussò al vetro. La ragazza al bancone gli rivolse un sorriso luminoso e gli fece segno di entrare. Aveva i capelli di uno strano biondo carico e opaco… color ottone. Lui si accostò timidamente.
“È aperto?”
“Certo!”
“Immaginavo fosse un posto aperto solo d’estate. Sono fortunato”.
Dalla cucina, un’altra ragazza bionda reclinò la testa all’indietro per sorridergli. Somigliava molto a quella in sala; sorelle, probabilmente.
“C’è più movimento d’estate,” ammise la ragazza al bancone, “ma, in fondo, costa poco tenere aperto tutto l’anno. Il pesce lo prende papà,” gli strizzò l’occhio. “Di bollette spendiamo poco. È piccolo, come vede”.
Lui si tolse la giacca: “Posso sedermi, allora?”
“Prego!”
“Non abbiamo un menù, d’inverno,” intervenne la cuoca, mentre si accomodava. “Possiamo fare noi? C’è qualcosa che non mangia?”
“Se possiamo evitare il pesce crudo…”
“Certo… anche se è un peccato…” Anche lei gli strizzò l’occhio.
Stava piacevolmente conversando con la sorella in sala, quando l’altra emerse dalla cucina con un monumentale vassoio di crudo. Aprì la bocca, interdetto, ma lei lo prevenne, mentre la sorella ridacchiava.
“Guardi che lo faccio per lei. È tutta una questione psicologica, mi creda”.
“Mia sorella ha ragione,” confermò la cameriera, “si deve solo rilassare”.
Gli scivolò alle spalle e iniziò a massaggiargli dolcemente le spalle, intonando una strana melodia mugolante a cui si unì la sorella, prima in piedi, poi languidamente appoggiata alla vetrata, infilando le dita nelle maglie della rete, infine appoggiandosi al bordo del tavolo e infilandogli tra le labbra, lentamente e ritmicamente, un boccone dopo l’altro.
Tornò a casa, a Roma, due giorni dopo, domenica sera. La sua compagna, che attendeva sue notizie da quarantotto ore e solo a fatica era stata persuasa dai carabinieri a non far scattare ancora le ricerche, gli fece una terribile scenata. Lunedì, egli si presentò imperturbabile in Ministero alle sette e trenta spaccate, sedette alla sua scrivania e stese immediatamente il referto di controllo, attestando l’impeccabile gestione del finanziamento da parte del Comune. La sua convivenza non si riprese mai da quel misterioso incidente. La sua aria perennemente trasognata esasperava la compagna, rosa ormai dal tarlo del dubbio. Si lasciarono otto mesi dopo. Quando amici e parenti gli chiedevano spiegazioni sulla rottura, lui mostrava pochissimo interesse per l’argomento, deviando quasi sempre la conservazione su un argomento che sembrava invece ossessionarlo: come avesse superato la sua ripugnanza per il crudo di pesce.
“Non bisogna mai essere troppo sicuri di niente,” amava ripetere.