Mia cara Berenice,
tanti anni fa, sui Piani del Venezuela, facevo andare a passo di formica un cavallo fulvo. La guida indigena mi raggiunse e mi chiese come stesse andando. “Bien,” brontolai, poco avvezzo com’ero a cavalcare: la mia unica esperienza risaliva all’infanzia in una masseria pugliese, e in quel caso la cavalla si era imbizzarrita… “Bien lento,” rise l’indigeno. Schioccò la lingua e il destriero partì immediatamente al trotto, tra le mie proteste.
“Bien lento” è anche il cavallo del federalismo in Italia. Non mi aspetto che questo Paese si avvicini agli Stati Uniti e nemmeno alla Germania, ma finora l’epopea del decentramento è stata tragicomica, donchisciottesca.
Devi sapere che l’Italia ha due categorie di Regioni, quelle a Statuto Ordinario e quelle a Statuto Speciale. Queste ultime sono state istituite già a partire dal cosiddetto “ordinamento costituzionale transitorio”, vigente dalla caduta del fascismo all’entrata in vigore della Carta attuale. Ognuna ha il proprio Statuto ad hoc che ne disciplina competenze e rapporti con il Governo centrale. Nel caso di Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, le prerogative regionali si ancorano anche in una certa misura nel diritto internazionale, con Francia e Austria a fungere da Potenze protettrici.
Le Regioni a Statuto Ordinario, la maggioranza, pur avendo anch’esse uno Statuto, vedono le loro competenze e rapporti con il Governo centrale disciplinati unilateralmente e uniformemente dalla Costituzione. Benché questa sia entrata in vigore negli anni ’40, sono venute a esistenza solo negli anni ’70, un elemento di per sé significativo. Una consistente devoluzione di competenze si è avuta con le Leggi Bassanini negli anni ’90 e con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001.
Questa riforma, non casualmente, ha germinato due opinioni contrapposte.
Secondo la prima, avrei introdotto anarchia e sperequazione, impedendo l’adozione e l’attuazione di politiche nazionali, nonché inflazionando il contenzioso davanti alla Corte Costituzionale.
Per la seconda, non avrebbe ancora fatto abbastanza, lasciando le Regioni dipendenti, soprattutto sotto il profilo finanziario, dal Governo centrale.
Alla prima opinione va ricondotta la riforma costituzionale Boschi, generalmente considerata portatrice di un centralismo di ritorno, mai entrata in vigore perché bocciata dal referendum confermativo.
Alla seconda la nomina, nell’attuale Governo, di uno storico autonomista a Ministro per gli Affari Regionali. L’On. Calderoli starebbe peraltro già sperimentando una forte resistenza alle sue iniziative da parte delle Regioni del Sud, timorose di un pregiudizio alle politiche perequative, ma anche da parte degli stessi alleati di governo: la destra, si sa, tende a essere centralista. Eppure, per il momento si vorrebbe solo dare attuazione all’autonomia differenziata già prevista dall’articolo 116 della Costituzione.
Uno schiocco di lingua.
Stan