L’inizio di “Elegia americana”

Mia cara Berenice,

ci eravamo lasciati in un giardino di Trastevere, alle prese con le prime pagine di “Elegia americana”.

Molto colpito dalla prefazione dell’autore, ho richiuso il libro, l’ho disposto acconciamente sulla panchina dipinta, gli ho scattato una foto e l’ho inviata a F., che me l’aveva regalato, con una semplice didascalia: “Promette bene”.

F. ha risposto con la consueta sollecitudine, assicurandomi che l’inizio, in particolare, è illuminante.

Il libro parla degli hillbilly, i “bifolchi”, i bianchi di bassa estrazione sociale. La loro patria è la Rust Belt, la Fascia della Ruggine, gli Stati dell’America profonda dove si viveva d’industria vecchio stampo, prima che la globalizzazione si portasse via le fabbriche. Da lì nascerebbero il trumpismo, con annessi complottismi e teorie di Qanon. Da lì sarebbe partita l’Armata Brancaleone che ha preso d’assalto il Campidoglio di Washington, forse contribuendo all’idea russa di un Occidente ormai decotto e alla conseguente guerra in Ucraina.

L’autore, hillbilly orgoglioso di esserlo, può permettersi di parlare liberamente, senza restrizioni di correttezza politica. Nella prefazione, contesta l’idea diffusissima che ci sia l’emarginazione socioeconomica alla base dei mali della Rust Belt: criminalità, alcolismo, abuso di droghe e abusi familiari. Non essendo un saggista, non svolge un’argomentazione strutturata, ma si limita a portare l’esempio di una coppia di hillbilly che, ottenendo uno degli ultimi agognati posti in fabbrica, fa di tutto per farsi licenziare, quasi non vedesse l’ora di intascare l’equivalente americano del reddito di cittadinanza.

Ebbene, questo passaggio apparentemente banale ha in sé qualcosa di misterioso. Se lo avesse scritto chiunque altro, sarebbe il solito luogo comune moralistico. Uscendo dalla penna di Vance, al di sopra di ogni sospetto come la moglie di Cesare, ispira viceversa riflessioni più oneste e profonde.

Chi si sente respinto da un sistema, lo rigetta anima e corpo, razionalmente ed emotivamente. Rompe con il lavoro, con l’etica del lavoro. Recuperarlo diventa un’operazione chirurgica e delicatissima, per la quale non bastano istruzione, fondi, assistenza e orientamento. La psicologia, la sociologia, forse perfino l’etnologia assumono un peso determinante.

Questo passo mi ha fatto tornare al primo anno di pandemia, durante il quale volli fare del volontariato. Mi colpì, durante quel percorso, il rancore muto e sordo dei malati psichici, il livore e le provocatorie furberie di chi si presentava alla mensa dei poveri. Tutto così lontano dalle immagini zuccherose che la letteratura, il cinema e la religione danno dell’interazione con gli ultimi. È un dialogo difficile, ostico, tra tempi e mondi lontani.

Un sobrio saluto.

Stan

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