Mia cara Berenice,
è oltremodo bizzarro che solo stasera, per la prima volta, io veda “Lady Bird” (USA, 2017).
Il film è ambientato a Sacramento, di cui sembra la parte più ricca sia East Sacramento.
Dipinta come di provincia, la città è la capitale dello Stato della California, precedendo così nell’ordine delle precedenze le più blasonate Los Angeles e San Francisco.
In Veneto, “sacramento” è una blanda imprecazione, nonna la usava spessissimo nella versione troncata “cramento”. In famiglia, chi volesse imitarne la parlata volitiva esordiva appunto con “cramento”.
La bizzarra esclamazione era al suo posto, di casa, in quelle campagne che non disdegnano improperi e bestemmie ben più coloriti. Dopotutto, sembra il nome di un complesso attrezzo articolo, noto solo agli iniziati, di quelli che si trovano esposti in certi musei dell’artigianato sui Colli o sulle Prealpi, bozzi annodati di legno che fanno reclinare i colli dei moderni turisti metropolitani.
Qualcuno, più intraprendente, attira discretamente l’attenzione della volontaria locale, laureanda di storia dell’arte nel capoluogo di provincia, indica pudicamente l’oggetto e chiede: “Scusa, quello che a serviva?”
“A raccogliere le lumache dai canali di scolo,” risponde la ragazza a fior di labbra, con l’aria di chi bisbiglia un segreto.
“Oh… ma… che se ne facevano?”
“Be’… le mangiavano… proprio come adesso”.
“Oh… pensavo… sa… che le allevassero… o qualcosa del genere”.
“No, no… forse si confonde con i bachi di seta”.
“Oh…”
“Sui banchi, detti ‘cavalieri’, trova del materiale nella prossima sala”.
Mia nonna li odiava, i cavalieri e le loro maledette foglie di gelso.
Un iroso saluto.
Stan