Mia cara Berenice,
dovrei stare a studiare per un esame di Stato che si terrà presumibilmente in autunno e, in subordine, leggere una diecina di manoscritti in quanto giurato di un premio letterario. In realtà, non sto facendo nessuna di queste due cose, bensì traducendo – rectius: localizzando – un intero videogioco, precisamente un picchiaduro a turni.
Se non altro questo lavoro, unitamente a una sgradevole esperienza avuta al parco ieri, mi ha ispirato il racconto che ti allego.
Prima di giudicarlo troppo severamente, ricordati quanto amavo Stettino, il mio adorato botolo.
Un guaito.
Stan
“GUARDI CHE NON FA NIENTE!”
Pugliese trapiantata a Milano fin dai tempi dell’università, Stefania si era adattata talmente bene ed entusiasticamente, da essere diventata inspiegabilmente bionda e con gli occhi azzurri… non era vero, naturalmente, era un’acida battuta che amava particolarmente sfoderare sua sorella. Eppure, se non c’era alcun fondo di verità in senso letterale, si poteva almeno capire cosa avesse ispirato quella malevola facezia.
Prima, Stefania aveva vaporosi capelli biondo chiaro, ora un caschetto della durezza e del luccicore del metallo. Prima aveva gli occhi azzurri, ora fermi e cerulei come due zaffiri, alle sfaccettature del cui intaglio nulla sfuggiva.
Stefania si svegliava alle sei, divorava a bracciate la piscina, lavorava dodici ore a testa bassa e con dedizione assoluta in una società di consulenza, infine andava a fare una lunga corsa nel parco.
Quella sera il sole estivo era ancora alto e il caldo soffocante, quando la ragazza, voltato l’angolo di una siepe, si trovò di fronte un enorme cane nero, ritto sulle zampe posteriori, le zampe strette a pugno all’altezza dei fianchi. Nell’incavo della sua vasta ombra, simile a un mantello, si distingueva a malapena quella che solo per convenzione poteva definirsi la padrona, una signora incolore e minutissima.
Stefania tentò di evitare ogni contatto visivo e semplicemente proseguire oltre, ma il cane le sbarrò intenzionalmente la strada. Usando gli occhi luccicanti di minaccia, il ringhio rabbioso, la bava, un accenno delle zampe, la postura minacciosamente reclinata, le fece capire di volere il contenuto del suo marsupio.
Stefania lanciò alla padrona un’occhiata eloquente nel chiedere se fosse normale che il suo loppide rapinasse le ragazze in pieno giorno, in un parco pubblico di Milano.
“Guardi che non fa niente!” Pigolò la signora, con una vocina strascicata da orante.
“Bene, se non fa niente…” Mormorò Stefania, accennando di nuovo a passare.
Il cane le posò brutalmente la zampa sulla spalla, non prima di avergliela passata fuggevolmente sul seno. Con un gesto e una determinazione che avrebbero dovuto mettere sul chi vive l’animale, se fosse stato più intelligente, Stefania scostò la zampa e lo respinse. Il cane proruppe in un alto ringhio ululante ed estrasse dal cespuglio dell’inguine un temperino, lampeggiando con gli occhi in direzione del marsupio, con luciferino imperio.
Con un gesto analogo a quello precedente, Stefania allontanò la zampa armata di coltello e colpì in rapida successione la bestia all’inguine, al centro del petto, sul naso e tra gli occhi con il palmo della mano. L’ultimo attacco arrivò smorzato, perché quello al naso, violentissimo e preciso, fece cadere all’indietro il cane come morto, mandando il coltello a rimbalzare argentino sul selciato del sentiero.
Stefania lo allontanò con un calcio e se la prese con la signora.
“Signora, ma mettergli guinzaglio e museruola, a questo avanzo di galera?”
“La museruola al mio bambino? Ma non scherziamo!” Balbettò la signora, tutta tremante. “Ecco, gli metterò gli guinzaglio…” Così dicendo, estrasse una corta fettuccia che nemmeno in linea strettamente teorica sarebbe potuta servire a condurre quell’energumeno peloso.
Stefania scosse la testa con aria di riprovazione e riprese a correre.