Mia cara Berenice,
ti avevo già parlato di quell’epocale tempesta che ha letteralmente raso al suolo il bosco della mia infanzia, intorno alla casa dei miei zii a L., sopra Cortina.
Alla fine, anche la Marmolada è caduta. È franata, dicono i giornali, in testa a un manipolo di poveracci, ma poco cambia: secondo gli esperti, nel 2050 al più tardi il ghiacciaio avrà cessato di esistere.
Con tutto il gran frequentare la montagna della mia famiglia, io non ci ho mai messo piede. Perché non è banale, salire un ghiacciaio. Mio zio e la sua intera cordata rischiarono di rimetterci le penne, in una memorabile notte di tempesta di tanti anni fa.
Mentre più modestamente camminavo sui declivi, sui prati, nei boschi, la Marmolada era un luccicore lontano, il bagliore bianco della cima del vulcano, il ricordo visibile e invisibile, la raffigurazione sacra dalla maestosità e alienità della montagna, della sua fredda e siderale lontananza dagli affanni umani, ma anche del rigore ferreo e spietato con cui puniva le formiche che ardissero violare le sue regole ancestrali. Come appunto la lava di un vulcano, quel ghiaccio io lo sentivo ribollire e mormorare sommessamente, cantare un peana che era un proclama reale e diceva: tutto questo è mio. Res mea est, come declamavano gli attori-postulanti davanti al magistrato-sacerdote, nella Roma arcaica.
La Marmolada-Montagna dicono abbaia straziato i corpi dei morti con modalità che non le sono abituali e non le si addicono, lei che tante volte ha mummificato i corpi dei condannati a morte, pur spietatamente giustiziati, per decenni inenarrabili, a disposizione di quanto fossero venuti, finalmente col capo cosparso di cenere, a reclamarli.
Quello di ieri non è stato il solito tuono di Zeus, di sole riflesso e centuplicato dalla neve come in un prisma, ma un grufolare di maiale, un bramito di cinghiale, un ultimo ruggito rauco senza dignità, uscito da una gola affogata nel suo stesso sangue.
Dixi.
Stan