Mia cara Berenice,
se il turismo di massa è nato dopo il boom del dopoguerra, possiamo dire che dai tempi dello sbarco in Normandia le spiagge sono sinonimo di guerra.
Guerra per prenotare l’ombrellone, ogni anno è “estate da tutto esaurito”, con annessi “inevitabili rincari”.
Guerra per arrivarci, all’ombrellone, tra code sulla Statale e appartamenti “vista mare” in realtà più lontani del Comando di von Rundstedt o del Führerbunker.
Guerra contro la sabbia bollente, i vicini rumorosi, i bambini, i palloni, i vitelloni, i venditori ambulanti, gli animatori e i listini di bar e ristoranti.
Guerra contro il cibo scadente e surgelato.
Guerra d’infiltrazione, strisciante, per raggiungere la sabbia libera senza essere cacciati via con qualche pretesto.
Guerra per cacciare i concessionari che cacciano i bagnanti infiltrati nella spiaggia libera o contrabbandieri di cibo o bevande portati da casa – negli stabilimenti di Bacoli, secondo il Corriere della Sera e lo stesso locale Comune, si viene perquisiti all’ingresso, alla ricerca di melanzane alla parmigiana o bottigliette di tè freddo.
Guerra contro le meduse e le alghe, queste ultime innocue, ma sozze e ributtanti.
Guerra per andarsene, tra PR che tappezzano i marciapiedi di volantini delle discoteche e nuove code.
Guerra contro i servizi di costume dei telegiornali.
Insomma, come diceva von Clausewitz, “la spiaggia non è che la prosecuzione della guerra con altri mezzi”… oppure era il contrario?
Un dubbioso saluto.
Stan