Mia cara Berenice,
ricordi quando ti dissi di essere un traduttore – calcando un poco la mano per fare colpo – e tu mi sfidasti a declamare un certo discorso di Bismarck al Reichstag?
Facesti bene a stroncare il mio gallismo, anche perché quella del traduttore è una professione fantozziana.
Il cottimo più estremo, pagato un tot di centesimi a parola – ma se sei pagato a cartella o a ora, è peggio.
Proprio ieri pomeriggio riflettevo sulla testarda attitudine di clienti e agenzie a usare per le traduzioni i fogli di calcolo, progettati per tutt’altro e prevedibilmente inadatti, quando improvvisamente mi è piovuta sullo schermo la mail di una project manager, che chiameremo Kelly Hu in omaggio alla grande attrice americana.
Project manager, chi è costei? Si tratta di una traduttrice o ex traduttrice, assunta da un’agenzia per coordinare e supervisionare il lavoro di più traduttori su più progetti. Ne parlo al femminile perché, per qualche misteriosa ragione, è invariabilmente una ragazza: forse perché incarna il femminile nel suo essere, al tempo stesso, indispensabile e foriera di sventure.
Kelly sollecitava, per l’appunto, la consegna del foglio di calcolo su cui stavo lavorando, cercando di imprimere un minimo di decenza nella traduzione automatica di una serie di notizie finanziarie sui mercati asiatici.
Per un attimo, penso che si tratti solo di un gentle reminder: la consegna era fissata per le diciotto ora di Greenwich, quindi diciannove ora di Roma. Tuttavia, so per esperienza che la project manager ha sempre uno stiletto nascosto sotto i pizzi, per cui rileggo rapidamente il carteggio pregresso, dai cui codicilli emerge l’amara verità: la consegna era fissata alle diciotto ora di Hong Kong, il che spiega perché tutte le project manager di quest’agenzia abbiano un prenome inglese e un cognome cinese.
Poco male, la revisione è quasi completata e la spedisco a strettissimo giro. Kelly si profonde in ringraziamenti. Maledette Triadi.
Ti saluterei come nel kung fu, ma temo non sia possibile per iscritto.
Stan