Mia cara Berenice,
sul Sole 24 Ore di oggi, un ottimo articolo di Maria Carla De Cesari incrocia dati della Cassa Forense e risultati di un’indagine Censis per dipingere un quadro non propriamente roseo della situazione dell’Avvocatura, tra redditi bassi, fuga verso la Pubblica Amministrazione e un professionista su tre intenzionato a cambiare lavoro.
Una fotografia che potrebbe sorprendere il quivis e populo, abituato a considerare l’Avvocatura sbocco naturale e prospero degli studi in Giurisprudenza, sempiternamente protetto da un solido presidio in Parlamento, al Governo e nella Pubblica Amministrazione.
Viceversa, sbadiglieranno di noia gli addetti ai lavori, ma anche chiunque abbia frequentato i corridoi di un Tribunale.
Si usa stigmatizzare la pratica professionale gratuita, la cui durata è stata ridotta da due anni a diciotto mesi. In realtà, solitamente, dopo il primo semestre al praticante viene riconosciuta dal dominus (questo il titolo feudale attribuito al titolare dello Studio) una borsa di studio.
Il problema non è la pratica, poca cosa rispetto ai cinque anni già trascorsi dal rampollo a razzolare nella Facoltà di Giurisprudenza, a frequentare l’unico corso di laurea uscito con un anno di durata in più dalle riforme universitarie che dovevano accelerare l’iter degli studi.
Il problema è che sostenere l’esame di Stato, sinistramente simile a una lotteria, richiede anni.
Il problema soprattutto è che, ottenuti finalmente il titolo di Avvocato e l’iscrizione all’Albo, lo stipendio non cambia poi di molto.
Se si resta nel tipico studio medio-piccolo, si rimane collaboratori a partita IVA, per sempre. Se decide di licenziarti, il dominus deve solo indicarti la porta, come nei film americani. Lo stipendio, falcidiato da ferie e malattie non pagati, nonché dai contributi alla Cassa Forense, è da fame – nonostante il regime fiscale generosissimo che il Governo, per non infierire, applica alle piccole partite IVA: per fare un esempio pratico, largamente inferiore a quella della segretaria ventenne dello Studio.
Certo, in teoria si resta nello Studio altrui solo qualche anno, a farsi le ossa prima di aprire in proprio, magari con l’aiuto delle difese d’ufficio penali.
L’esercizio della professione in proprio, tuttavia, per non essere un costoso hobby richiede un portafoglio di clienti, possibilmente puntuali nei pagamenti delle parcelle. Il portafoglio spesso si eredita, in senso lato. Si prende cioè in gestione lo Studio di famiglia o la famiglia stessa procura i clienti in altro modo, facendo leva su uno Studio commercialistico, un’Agenzia assicurativa, uno Studio medico ben avviato, qualche carriera nella politica locale, etc. In casi rari, il giovane Avvocato riesce a costruirsi il portafoglio da solo. Per questo, le competenze tecnico-giuridiche non bastano, occorre una particolare propensione alle pubbliche relazioni. All’Università non te lo insegnano e forse non si può nemmeno imparare; anzi, ai corsi di deontologia ti illustrano il “divieto di procacciamento di clientela”.
Un’alternativa può essere il grosso Studio di Milano o di Roma. Farsi assumere, però, non è facile. Se anche ci si riesce, lo stipendio più che decoroso lo si paga immolando sull’altare la vita privata.
Un compromesso può essere la posizione di legale interno (in house) in un’azienda. I posti di questo tipo però sono pochi, in un Paese dominato dalle Piccole Medie Imprese e in cui, comunque, è più conveniente appaltare il lavoro legale a uno Studio esterno, in cambio di una parcella forfettaria mensile. Nulla vieta, poi, che anche in questo caso venga offerta una collaborazione a partita IVA.
Insomma, l’Avvocatura è un po’ come gli Hunger Games: meno di uno su venti ce la fa, e non ci sono nemmeno Jennifer Lawrence o Jena Malone.
Con osservanza.
Stan