La mia femme fatale

Mia cara Berenice,

“a mezzogiorno, o sbaglio, o t’ho sognato” (Giuseppe Giusti, “L’amor pacifico”).

Ieri sera, senza dubbio, io t’ho sognato a occhi aperti.

Stavo guardando “Sherlock” della BBC, con Benedict Cumberbatch, la prima puntata della prima stagione. Mi godevo quelle atmosfere londinesi e pensavo: “Sherlock Holmes certamente appartiene al ristretto pantheon dei personaggi immortali. Del resto, Arthur Conan Doyle ben se lo merita… quanta attualità nelle sue pagine… l’ennui del genio, la cocaina… la prima femme fatale, Irene Adler…”

“Come sarebbe ‘la prima femme fatale’?” Mi hai fatto notare a quel punto tu, con voce stentorea. “Ed Elena di Troia?”

Ho alzato lo sguardo dal divano. Indossavi un tubino nero, attillato ma elegante. Eri dritta come un fuso.

Mi sono alzato e ti ho sfiorato i capelli, che portavi strettamente raccolti in uno chignon severo, ma sensuale.

“Certo,” ho mormorato a bassa voce, prima di baciarti umilmente sulle labbra.

“Meno male,” hai tagliato corto, rimettendomi a sedere sul divano con una mano adunca e curatissima.

Mi hai infilato il piede e la scarpetta nera col tacco dietro al polpaccio e, con una mossa tra la danza e l’arte marziale, mi hai spedito le gambe lunghe sul divano, per poi torreggiarmi sopra con la mano sul fianco e sulla stoffa tesa del tubino.

“Ma tu non odiavi le serie?” Mi hai chiesto.

“Be’, non facevano molto altro… ed era la prima puntata della prima stagione… e il giornalista che moderava il talk show prima di…”

“E com’è?”

“Be’… non è male…”

“Davvero?”

“Sì…”

Mi hai posato la mano sulla fronte: “Allora chiudi gli occhi”.

Dissolvenza.

Stan

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