Subordinazione, dipendenza economica o…?

Mia cara Berenice,

non è un buon momento – ammesso che ce ne sia mai stato uno – per le Istituzioni europee.

Prima l’imbarazzante ritiro della circolare interna sul linguaggio inclusivo e gli auguri di buon Natale.

Poi la proposta di Direttiva sull’incommerciabilità degli immobili con classe energetica troppo bassa, così palesemente condannata a essere respinta o annacquata che nemmeno i partiti antieuropeisti hanno dato troppo risalto alla notizia.

Ho il sospetto che gli uffici e dipartimenti della Commissione non coinvolti nel Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza, il famoso Recovery, si sentano tagliati fuori dal dibattito pubblico e stiano cercando disperatamente di far sentire la loro voce, sparando cartucce non sempre ben mirate.

Ha maggior possibilità di essere accolta favorevolmente – almeno a livello di opinione pubblica, perché temo l’epilogo legislativo sarà lo stesso – la proposta di Direttiva su quelli che la Commissione ha chiamato “platform worker”, ma in Italia e altrove sono meglio noti come “lavoratori della gig economy” o “rider”.

La proposta di Direttiva, piuttosto audacemente, introduce una presunzione di subordinazione di chi presti la propria opera per una piattaforma che “controlli le sue prestazioni”.

Si ha controllo quando ricorrono almeno due delle seguenti condizioni:

a) la piattaforma fissa la retribuzione del lavoratore, almeno nel massimo;

b) la piattaforma impone regole di condotta al lavoratore;

c) la piattaforma supervisiona il lavoro o ne controlla i risultati;

d) la piattaforma limita la libertà del lavoratore di organizzare il suo lavoro;

e) la piattaforma limita la possibilità del lavoratore di crearsi un portafoglio clienti o lavorare per terze parti.

La formulazione della norma desta qualche perplessità, in quanto due o più dei criteri enunciati saranno soddisfatti praticamente da ogni platform worker, anche occasionale. Ad esempio io, come sai, come secondo lavoro faccio il traduttore e il mio principale cliente è un’agenzia online americana. Quest’ultima fissa il mio compenso per parola, mi impone determinate regole di condotta, esegue un controllo di qualità sulle mie traduzioni e mi vieta di contattare direttamente i clienti. Eppure, io non mi sento un lavoratore subordinato.

La presunzione de quo può essere vinta dalla piattaforma, ma sulla base di presupposti piuttosto fumosi e rimessi, pare di capire, agli ordinamenti nazionali.

La verità è che la nozione giuridica di subordinazione è sempre stata una base poco solida su cui costruire il diritto del lavoro. Se è evidente la subordinazione di un operaio impiegato in catena di montaggio, già in tempi non sospetti la dottrina ammetteva non esservi sostanziale differenza tra agente di commercio e commercio viaggiatore. Figuriamoci in tempi di lavoro agile, telelavoro e mansioni sempre più creative e di concetto.

Forse varrebbe la pena di passare al concetto di dipendenza economica, utilizzato nella disciplina dei rapporti commerciali (intesi come rapporti tra imprese) o, talvolta, delle collaborazioni in regime di monocommittenza. Piuttosto vago, dirai tu. Non credere però che la nozione di dipendenza o subordinazione sia così chiara. Non casualmente, la giurisprudenza è stata costretta a elaborare progressivamente un catalogo di indici sintomatici, come la periodicità della retribuzione, l’esistenza di un orario di lavoro, etc.

Come ulteriore alternativa, mi viene in mente un criterio di sostanziale equivalenza alla nozione classica, socialmente tipica di lavoro subordinato, imperniata soprattutto sulla continuità e regolarità della prestazione resa in favore dello stesso soggetto. In questo modo, sfrutteremmo a nostro vantaggio l’idea un poco rigida e ottocentesca che conserviamo del lavoro.

Un qualificato saluto.

Stan

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