Mia cara Berenice,
la disavventura di una collega da due giorni in malattia mi ha ispirato il racconto che ti allego, richiamante certa estetica trash e tarantiniana.
Uno sferragliante saluto.
Stan
IL TRENO INFERNALE
Sguazzante nell’uniforme inadatta a un ragazzo acerbo e malvissuto, una gomma americana nella bocca mal rasata, l’obliteratrice e le chiavi tintinnanti alla cintura, l’erezione mattutina gioiosamente ravvivata, il capotreno si apprestò a controllare i biglietti alle ragazze, pregando che qualcuna ne fosse sprovvista o si fosse dimenticata l’annullo.
Del resto, che potevano saperne del mondo? Nemmeno maggiorenni, indossavano quella che era probabilmente l’uniforme di una scuola privata: camicetta, gonna a pieghe, calzoncini al polpaccio. Erano accompagnate da certi cerberi dislocati alle due estremità del vagone, donnoni dall’aria truce che indossavano un’uniforme molto simile alle ragazze e, proprio per questo, tanto più grottesche.
Prima ancora che il capotreno riuscisse ad avvicinarsi e odorare il primo pasticcino, appunto uno dei cerberi gli si parò davanti come un muro, schiaffandogli sotto il naso un biglietto cumulativo.
Il capotreno scostò con intenzione, lentamente, la mano gonfia e lentigginosa.
“Non serve, sorella,” strascicò. “Mi fido”.
“Grazie,” rispose il donnone, “ma non sono tua sorella”.
Il capotreno fece guizzare lo sguardo ironico sul corpo massiccio.
“Mi scusi, signora,” calcò sulle ultime sillabe. “Pensavo fosse una suora, di quelle senz’abito”.
“Una suora senz’abito? Lo dici a tutte le passeggere?”
“Be’, a queste ragazze con lei, no di certo”.
La donna, inaspettatamente, fece un sorriso strano: “Ti conviene lasciarle perdere. Credimi, è per il tuo bene”.
Il capotreno si chinò in avanti, fin quasi a sfiorarle il naso; masticò più vigorosamente e rumorosamente la gomma. “Be’, io sono il capotreno. Comando io… signora”.
“Se sei il capotreno,” sibilò lei, “vattene nella carrozza di testa… o nel vagone della spazzatura”.
Con noncuranza sprezzante, il capotreno passò oltre, trascinando gli scarponi impolverati dell’uniforme. Attraversò lentamente l’intero vagone, soffermando ostentatamente lo sguardo su gambe e scollature. Si sentiva gli occhi bovini del donnone fra le scapole. Anche gli altri cerberi, al lato opposto del vagone, si alzarono, fissandolo con intenzione. Il capotreno ebbe cura di ricambiare lo sguardo si ciascuno, prima di uscire e chiudersi la porta metallica alle spalle.
Vecchia stronza. Ora le avrebbe accomodate lui, quelle suore e le loro ragazzine inamidate pompinare. Usando una chiave dal suo mazzo, aprì il vano del pannello di servizio e azionò i comandi fino ad alzare il riscaldamento al massimo. Era uno scherzetto che faceva spesso, quando c’era qualche bella passeggera.
VENTIQUATTRO ORE PRIMA
Eppure, sembrava una scuola normale. In quel momento, le porte delle aule erano chiuse, le ragazze relativamente silenziose, a lezione. Dalla grande vetrata in fondo al corridoio, parzialmente schermata da grosse piante rigogliose, si intravedeva un’altra classe fare la spola sulla pista d’atletica.
Lui stesso sembrava un padre sollecito che accompagna la figlia prediletta all’iscrizione. Bussò, appunto, alla porta del Direttore.
“Avanti!”
Entrò. La ragazza al suo fianco era un grumo di silenzio rappreso. Ne avvertiva la vibrazione nell’aria.
“Buongiorno, Commissario!” Salutò il Direttore. “Ciao, Elena”.
Elena non rispose. Il Commissario porse al Direttore un voluminoso incartamento, con lo stemma del Governo e l’intestazione del Ministero della Giustizia sul frontespizio. Il Direttore sfogliò i documenti con la familiarità di una lunga pratica. Immagini di corpi straziati, all’interno di una casa della classe media… medio-alta, a giudicare da alcune suppellettili ed elettrodomestici. Rilievi della Scientifica. Una scheda segnaletica. Omicidio plurimo con l’aggravante dei rapporti familiari. La perizia psichiatrica. La sentenza con cui il Tribunale Minorile mandava assolta l’imputata per totale infermità mentale. L’ordinanza con cui un’altra Sezione dello stesso Tribunale ordinava l’internamento in manicomio giudiziario minorile per almeno anni cinque e comunque finché la Commissione Medica, con referto convalidato dal Tribunale, non avesse stabilito che il soggetto non era più socialmente pericoloso per se stesso o terzi.
C’erano solo tre manicomi giudiziari minorili in tutto il Paese, e solo uno femminile.
Il Direttore richiuse l’incartamento e sorrise a Elena.
“Sei stata fortunata,” le disse con voce carezzevole, “è un buon momento per arrivare. Stiamo per partire per la nostra gita annuale”.
“Le mandate alla colonia alpina?” Chiese il Commissario.
“Sì, come ogni anno. Dobbiamo ringraziare l’Arcidiocesi che ce la mette a disposizione”.
“Per me le trattate pure troppo bene, queste qui. Non sono pazze per niente, a meno che essere troie sadiche non significhi essere pazze”.
“A maggior ragione,” sospirò serafico il Direttore, “è molto meglio portarle al fresco. Vede, è ormai dimostrato che il caldo è uno dei principali trigger degli episodi psicotici violenti… e, per qualche motivo che stiamo appunto cercando di stabilire, sembra che l’effetto sia amplificato sui soggetti femminili di questa fascia d’età…”
Dopo aver fatto il giro dei vagoni, il capotreno tornò a dirigersi fischiettando verso la carrozza n. 6. A quell’ora, doveva essere ormai diventata un forno. Non vedeva l’ora di rivedere le sue ragazze. Posando la mano sulla maniglia, si chiese come mai, dall’interno del vagone, provenisse quell’assordante casino.