Mia cara Berenice,
stamane, l’edizione italiana dell’Huffington Post titolava a tutta pagina che la maggior parte dei lavoratori sarebbe disposta a rinunciare a parte dello stipendio o dei benefit per conservare il telelavoro.
Solo che si tratta di un sondaggio condotto negli Stati Uniti, come era intuitivo, dato che vi si fa riferimento all’assistenza sanitaria e, soprattutto, pochi in Italia possono permettersi un taglio della retribuzione.
Questo non significa che, in Italia, il telelavoro – o lavoro agile, come lo chiamiamo qui pomposamente – non piaccia, ma sicuramente il contesto americano è profondamente diverso.
Al di là della sua flessibilità molto maggiore, il mercato del lavoro a stelle e strisce è attualmente investito da un fenomeno che la stampa ha battezzato “the Great Resignation”, la grande ondata di dimissioni. In parole povere, i dipendenti sono stufi marci dei loro datori di lavoro ed è ovvio che reagiscano in modo particolarmente negativo al richiamo in ufficio.
Certo, ha un suo ruolo anche la disoccupazione particolarmente bassa che, soprattutto negli ultimi tempi, sta rendendo difficile trovare baristi, autisti, camerieri; ma problemi simili vengono segnalati anche in Gran Bretagna e – seppure in modo discutibile e aneddotico – perfino in Italia.
Molto più rilevante, a mio avviso, è il ruolo del cosiddetto “burnout”, probabilmente esacerbato dalla pandemia.
Secondo l’Ufficio Federale di Statistica, quasi un lavoratore americano su dieci ha un doppio lavoro. La percezione, tuttavia, è quella che il fenomeno sia molto più diffuso, come evidenziato da un articolo di Aparna Mathur su Forbes. La famosa deputata democratica Alexandra Ocasio-Cortez, in particolare, ha dichiarato che “la disoccupazione è bassa perché tutti fanno due lavori”. La Mathur, pur sottolineando correttamente la scarsa accuratezza statistica di questa affermazione, ammette che probabilmente diversi doppi lavori sfuggono alle statistiche ufficiali, ad esempio perché inquadrati in rapporti di lavoro autonomo tipici della gig economy. Inoltre l’OCSE, in un rapporto del 2004, punta il dito sul lavoro nero svolto soprattutto da immigrati negli Stati Uniti. Infine lo stesso telelavoro, con la sua flessibilità oraria, potrebbe aver dato nuovo impulso al cumulo di impieghi.
Sempre su Forbes, Jack Kelly riporta gli esiti di un sondaggio della piattaforma Indeed, secondo cui oltre la metà dei lavoratori americani si dichiara in burnout: una percentuale salita di dieci punti percentuali durante la pandemia – del resto, per otto partecipanti su dieci, la pandemia ha peggiorato le condizioni di lavoro.
Cosa pensare di un’economia che, fin da prima dell’attuale emergenza sanitaria, beneficia di un massiccio sostegno pubblico, eppure sottopone la sua forza lavoro a una simile pressione, con buona pace di chi sostiene che l’automazione sta rendendo obsoleto il concetto stesso di impiego e ci sta conducendo verso una società basata sul reddito garantito universale?
Forse, l’esempio americano rende più comprensibile l’attuale atteggiamento della Cina che, dopo essere diventata una grande Potenza con un’iniezione di capitalismo, sta rapidamente riducendo le dosi del farmaco.
Un pensoso saluto.
Stan