Rodeo texano

Mia cara Berenice,

al mondo non c’è forse film più sottovalutato di “Mio cugino Vincenzo” (USA, 1992), con Joe Pesci e Marisa Tomei.

In questa piccola gemma, Pesci interpreta un avvocato newyorchese al tempo stesso improbabile e geniale – “street wise” o “street smart”, secondo l’intraducibile espressione americana -, chiamato a difendere un parente e il suo amico arrestati nel profondo Sud per rapina e omicidio. Quando i due si lamentano per aver perso l’udienza preliminare, l’Avvocato Vincenzo La Guardia Gambini li investe così: “Stan… sei nel fottuto Alabama. Sei di New York. Hai ucciso un vecchietto. Non esiste che non si vada a processo”.

Anche se di solito si preferisce citare il Texas, è innegabile che la giustizia americana sia, soprattutto agli occhi di un italiano, piuttosto spiccia. Due elementi di prassi su tutti: la messa in stato d’arresto di chi sia sospettato di qualunque reato, anche minore; l’utilizzo largo del cumulo di pene. Chi non ha visto, al cinema o in TV, un poliziotto americano far scattare le manette ai polsi di qualcuno, sia pure per guida in stato di ebbrezza? O un giudice americano dichiarare l’imputato colpevole di novantanove capi d’accusa, per l’effetto condannandolo a novantanove anni di reclusione?

Ebbene, sempre a giudicare da questi elementi di prassi, il sistema italiano va avvicinandosi a quello americano.

Quanto al cumulo dei capi d’imputazione e delle pene, ha fatto scalpore la condanna inflitta all’ex Sindaco di Riace, molto più alta di quella chiesta dal Pubblico Ministero. La Corte è pervenuta a tale risultato considerando i reati singolarmente, anziché nell’ambito di un unico disegno criminoso, come era lecito attendersi dopo il gran parlare che si era fatto del Sistema Riace creato dal Sindaco. Considerando i reati uniti dal cosiddetto “vincolo della continuazione”, la Corte avrebbe applicato la pena prevista per il reato più grave aumentata fino al triplo, anziché sommare quelle previste per le singole fattispecie.

Passando a quello che l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro definì “il tintinnio delle manette”, di recente, sull’onda di alcuni casi di cronaca, è stata rafforzata la normativa a tutela delle vittime di atti persecutori, spesso donne perseguitate da ex partner. Introdotta originariamente dalla Legge Carfagna, questa normativa ha sempre avuto una coloritura a stelle e strisce, facendo leva su provvedimenti giudiziari simili alle ordinanze restrittive americane. A questa meritoria emulazione, tuttavia, si è aggiunto l’arresto obbligatorio in flagranza o quasi flagranza, anche nel caso di reato per cui non possono applicarsi misure cautelari. In pratica, il sospettato verrà arrestato dalla Polizia Giudiziaria per essere liberato subito dopo dal magistrato. Un’incoerenza tale da fare prevedere, in futuro, un intervento della Corte Costituzionale.

Il problema, naturalmente, non è ispirarsi agli ordinamenti stranieri, compreso quello americano che ha comunque molto da insegnare: una Costituzione ancora in vigore dalla Dichiarazione d’Indipendenza, la Dichiarazione stessa, la Carta dei Diritti, non poche sentenze illuminanti della Corte Suprema.

Il problema è l’impressione di confusione, sbandamento e perdita di punti di riferimento sotto il cielo del diritto italiano che, pure, dovrebbe avere radici profondissime.

La seduta è tolta.

Stan

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