Mia cara Berenice,
ieri sera mi sono addormentato guardando l’edizione italiana di Masterchef e ho sognato.
“Jingping! Porta il tuo piatto!”
Si avanza verso i giudici Jingping, la testa bassa.
“Già dalla tua faccia vedo che il piatto fa schifo!”
“Sembra un mattone… una catasta di mattoni. Sai dove servivano queste cose? A New York nel 2011. E sai cosa è successo? È successo che il mercato è morto. Tutti morti: a New York, qui in Europa, in Asia, dappertutto”.
“Jingping, che è successo? Eri andato così bene, fino adesso”.
“Non so, chef”.
“Ragazzi, per tutti! Basta presentare un mapazzone per andare fuori, eh?”
Viene inquadrato, in prima fila, l’impeccabile, telegenico, detestato Emmanuel. Come la regia, anche lui ha afferrato al volo il messaggio: ripensa a Sedan, alle Ardenne. Si asciuga la fronte con il grembiule.
Alla chiamata dei tre peggiori, si ritrova al fianco di Jingping e di Joe, che ha presentato un’orrenda zuppa di carne mediorientale, paragonata dai giudici a una palude.
La regia spara la musica incalzante, pizzica i nervi di concorrenti e spettatori come corde di violino. I giudici, allineati come un plotone di esecuzione o una troika staliniana, incrociano le braccia. Chi dovrà abbandonare la cucina di MasterChef?
Un saluto alla julienne.
Stan