Resoconto di una conversazione con l’abate Rospigliosi sull’etica sportiva e sull’Europa

Mia cara Berenice,

oggi io e il buon abate Rospigliosi ci siamo accapigliati così rumorosamente che gli uccelli sono fuggiti dalle fronde della magnolia del chiostro e i frati, con contrario moto discensionale, sono calati dalle celle per spedirci entrambi in Penitenzieria.

Anglofobo ancora in lutto per la decapitazione di Maria Stuarda, il prelato si fregava le mani e inzuppava il pane nell’erba di Wembley come nel più ricco caffelatte, lanciando gioiosi strali da Cupido contro i fischi all’inno nazionale italiano, l’abbandono dello stadio prima della premiazione da parte del pubblico, il rifiuto della Nazionale ospitante di indossare le medaglie d’argento.

Io, un poco perché i festeggiamenti non mi avevano fatto dormire, un poco per noia di tutta la faccenda, un poco per ripicca, replicavo di vedere ben poca sportività nel calcio professionistico, vista la gragnuola di sfottò spesso squallidi, in cui un giornale si era distinto riportando come un membro della squadra inglese avesse il padre soggiornante nelle galere di Sua Maestà; e quindi non solo popolarmente, ma anche istituzionalmente, nonché per bocca del capitano e di vari esponenti della Nazionale.

“Gli sfottò fanno parte del calcio da sempre!”

“Non facevo l’eccellenza vostra reverendissima così esperta di un giuoco del resto praticato dal Vaticano. Comunque, se fanno parte del calcio, non vedo perché si dovrebbe spacciare quest’ultimo per teatro di sportività. Sarebbe come fare indossare un abitino della prima comunione, di quelli che usano in Spagna, a un maiale iberico”.

“Sarebbe come negare che i militari debbano salutare o suonare il silenzio, perché le battaglie sono inferni di cordite e polvere!”

Parallelo, devo ammettere, oltremodo azzeccato, che mi ricorda come il prelato avesse paragonato, poco prima, lo strapparsi la medaglia d’argento allo stracciare la tonaca da parte di un sacerdote a cui venga negata la porpora episcopale (“E se ne ho viste, di scene del genere!”).

A quel punto, ho portato il discorso sull’inopportunità di mescolare calcio, storia e politica, tirando in ballo di tutto, da Giulio Cesare alla Brexit, fino all’indipendenza della Scozia. Anche qui, l’abate ha avuto buon gioco a replicare che lo sport ha sempre avuto una valenza politica e certe vicende non erano state chiamate in causa capziosamente da Roma o da Bruxelles, ma dalle stesse Londra ed Edimburgo.

Ho ribattuto che tutto questo astio per la Brexit – con questo profetizzare a sproposito che Francoforte o Parigi avrebbero sostituito la City come piazza finanziaria e perfino che gli inglesi avrebbero trovato gli scaffali dei supermercati vuoti come i sovietici – mi pareva reazione da moglie abbandonata per la segretaria, quando invece un Paese deve restarsene nell’Unione per libera e convinta adesione e non sulla base di minacce da fattucchiera: tanto che a Bruxelles, se avessero un filo di sale in zucca, gioirebbero della dipartita di qualcuno che non c’era veramente mai stato, se non per opporre veti.

Chi aveva ragione? Con ogni probabilità, il buon abate, come sempre, e altrettanto probabilmente io sono ancora inacidito per quella bruttissima vicenda cadutami tra capo e collo che tu ben sai.

Posso tuttavia almeno rivendicare di aver fatto chiasso, tenuto conto dei luoghi e delle circostanze, ben più dei tifosi impegnati nelle loro girandole e quadriglie.

Un soddisfatto saluto.

Stan

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