Mia cara Berenice,
l’orrore inesprimibile si annida nelle lande più estreme della nostra psiche, nel nostro intimo più riposto, nelle pagine di Lovecraft e in quelle di Moccia.
Suo habitat naturale sono le cripte sudate di umidità – memorabili le cantine de “Il barile di amontillado” di Edgar Allan Poe -, le segrete dei manieri e dell’Inquisizione, le chiese sconsacrate, le grotte dimenticate dai cartografi, gli ultimi santuari pagani, i Treni Regionali e ad Alta Velocità.
Nelle carrozze metalliche vibra un rumore sordo, un brontolio di stomaco di cetaceo, un raschiare di gola infetta, un raschiare di zanne purulente: sono i passeggeri che sbraitano al telefono nelle rispettive inflessioni regionali o riproducono contenuti audiovisivi dagli altoparlanti dei dispositivi o attraverso cuffie porose di pietra pomice.
È in queste cupe casse di risonanza, ancestrali tamburi di pelle umana tesa e follia, che si materializzano terrificanti fantasmi.
Una ragazza si erge davanti ai miei occhi. Indossa un pesante scialle di lana traforata, perché sul treno una mano ignota, visti i 34 gradi all’esterno, ha acceso l’aria condizionata. Accenna a sfilare dalla cappelliera un trolley della misura più piccola, quando la madre la gela, imperiosa come un soprano all’Opera: “Non puoi farlo tu, quel lavoro! Chiama un maschio!”
Un rivirilizzato saluto.
Stan
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