Mia cara Berenice,
oggi a Roma fa davvero caldo e, sulla mia scrivania al Ministero, fa bella mostra di sé un magnifico ventaglio di carta a forma di spicchio d’anguria.
L’anguria o cocomero, si sa, è parte imprescindibile dell’estate. Biancastra o giallastra, vagamente malarica come si addice a un frutto da climi caldi, ma tendenzialmente di un selvaggio verde striato, cangiante fra il cupo e lo smeraldo più vivo e sfavillante.
Tratta dal frigo, dalla bacinella d’acqua o dal ruscello gelido di montagna.
Tagliata a fette o a cubetti.
“Com’è?”
“È dolce”.
“Non sa di niente”.
“È mollacciona”.
“È bella rossa”.
“È un po’ pallida”.
“Dove l’hai presa?”
“Dal siciliano”.
“Al supermercato”.
“Al mercato”.
“Dal fruttivendolo”.
“Dal fruttarolo”.
“Dove, dal gioielliere?”
I semini neri sputati, rimossi più educatamente dalla bocca, ingoiati dagli uomini più duri.
“Guarda che quelli bianchi puoi mangiarli”.
“Puoi mangiarli tutti”.
“Prendi una coppetta per i semi, Mara”.
Angurie svuotate per servire macedonie ai buffet e per metterle in testa a personaggi dei fumetti, dei cartoni animati o dei videogiochi.
Poi c’è chi, tutto l’anno, dice o scrive “Tante augurie” al posto di “Tanti auguri”.
Non molti, d’accordo.
Un saluto.
Stan