Mia cara Berenice,
tornato dalla pausa pranzo a Trastevere, ho trovato due camionette della Celere fare ala, come barchesse, agli ampi cancelli del Ministero. La solita protesta di docenti precari o studenti, di certo.
Mi piace immaginare che il sole battente, incandescente sui finestroni dell’ufficio, batta come un martello rovente sulla testa di una giovanissima manifestante, minuta ma proporzionata, incendiandone i capelli color carota e spedendola in un limbo fra la veglia, la siesta e l’indigestione da cucina messicana.
Stordita, va a sbattere contro lo spesso giubbotto protettivo di un poliziotto che sogghigna compiaciuto sotto il casco: “Cos’è, una nuova tecnica di guerra psicologica?” Dopotutto, sulla chat con i colleghi, da mesi girano solo video di soldatesse israeliane che ballano.
In una confusa fuga simile a un goffo balletto, la ragazza si sottrae, si trascina a ridosso dei tornelli, si aggrappa alla schiena di un grasso funzionario che torna, madido di sudore, dalla pausa pranzo, supera insieme a lui lo sbarramento.
“Ehi!” Urla il poliziotto, puntando al suo indirizzo il manganello.
La giovane guardia giurata, in uniforme e in subappalto, guarda disgustata il celerino infoiato. Lei è stata scartata dal concorso in polizia, dopo aver superato tutte le prove, al colloquio con lo psicologo… e poi assumono questo babbuino indurito?
La ragazza – potrebbe essere una studentessa, ma anche una giovane supplente – prosegue la sua danza nel cortile d’onore. Le statue del cornicione, rese nere come inchiostro dello sfondo rovente, la fissano ostili e stolide, come gargolle. Barcollando, prova a canticchiare a fior di labbra qualche verso di “Notre Dame de Paris”, ma viene bruscamente interrotta quando, dal secondo piano – il piano nobile -, un uomo si butta con la sua valigetta in pelle, impattando violentissimamente su un’auto blu parcheggiata in cortile, prima che atterri, più morbida e attutita, la valigetta.
La ragazza trasale.
“Non si preoccupi, signorina,” la rassicura il funzionario che l’ha inavvertitamente aiutata a entrare e, ora, tiene una tazzina di carta di caffè fra le grosse dita. “È il Signor Capo Dipartimento”.
La ragazza si raddrizza, deglutisce, ha uno scatto di fierezza: “È il Signor Capo Dipartimento? E allora io sono professoressa, non signorina!”
Sul bianchissimo collo di cigno, porta quello che si chiama un choker.
“Mi scusi!” Sussurra il funzionario. “Posso offrirle un caffè, per farmi perdonare?”
L’offerta è evidentemente interessata, le labbra dell’uomo sono tumide e nere come ciliegie; oltretutto, è in un bagno di sudore caldo. Ciononostante, la ragazza, con severo cipiglio, accetta, gli porge il braccio. L’uomo la scorta sotto i portici, per condurla al bar interno – nient’altro che un cappelletta incassata nel muro, dove un barista calvo con il riporto shakera all’infinito lo stesso cocktail – deve condurla attraverso vari uffici.
A ogni scrivania, la stessa scena, un impiegato o un’impiegata che dà in pasto fogli su fogli a un tritadocumenti rumoroso e irritabile. Queste maestranze lavorano a un ritmo forsennato e grosse gocce di sudore imperlano le loro fronti; come se non bastasse, alle loro spalle, scatole e scatole di documenti impilati attendono di essere mandate al macero.
“Ma che succede?” Chiede la ragazza che, poco prima della scadenza del suo contratto, ha fatto vedere agli studenti un film sulla caduta di Berlino nel ’45. “Ci invadono?”
“No,” spiega galantemente il funzionario, “vanno tutti in pensione”.
Un geriatrico saluto.
Stan