Mia cara Berenice,
la storia che sto per raccontarti si svolge da qualche parte nella Pianura Padana, nel 1945.
Nella piazza del paese cala un silenzio irreale dopo che l’ultima camionetta tedesca, caricata fra lo sbraitare dei sottufficiali, a furia di pedate e spintoni per scrostarla dal fango, è finalmente partita. L’aria è scura e gonfia, elettrica, il temporale imminente.
Sul sagrato della cattedrale sta in piedi il rettore, le braccia conserte, i lembi della tonaca lambiti dall’aria fredda che preannuncia il diluvio. Il volto ancora giovane è raggrinzito dalla preoccupazione sotto gli occhialetti tondi… ha la coscienza pulita, il monsignore, ma non osa ancora suonare le campane a distesa… potrebbe esserci ancora qualche tedesco, o qualche fascista disperato in giro… e poi i partigiani, in maggioranza comunisti, riconosceranno i suoi giusti meriti? Nel convento dei cappuccini, a un tiro di sasso da lì, ha fatto ricoverare lui stesso una famiglia di ebrei. Al sagrestano ha affidato un biglietto per il padre superiore e la raccomandazione di portarlo a destinazione, pedalando all’impazzata: non lasciar andare i giudei o, se proprio devono andarsene, farsi lasciare ricevuta del servizio prestato.
Dall’altro lato della piazza, in Municipio, non si hanno tutte queste remore. Dalla scala interna di servizio sbucano, nell’atrio pavesato di nero, due stradini mezzo ubriachi che sventolano la bandiera con la stella rossa sulla banda bianca. Si inerpicano sullo scalone e fanno irruzione nell’ufficio del podestà che quel giorno, prudentemente, non si è presentato al lavoro. Pisciano sullo scrittoio e sulla carta intestata della Repubblica Sociale, abbattono a calci i fasci, lanciano dal finestrone il ritratto del Duce, si affacciano al balcone agitando la bandiera e baccagliando.
Ma la piazza è vuota, già cadono i primi goccioloni di pioggia. Il rettore fa dietrofront, a lunghe falcate dentro il sottanone, ed esercita il suo diritto d’asilo nella cattedrale. Dove sarà finito il sacrestano? Possibile che venga trattenuto dalla…
La pioggia cade tutta d’un colpo, come il rovesciarsi di un secchio. Un boato che muggisce fra le navate. Il Rettore si segna, si inginocchia davanti alla Madonna della cappelletta, affonda il volto fra le mani: “Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum…”
Recita il rosario anche Rosina, l’ostessa, sull’inginocchiatoio del tinello, con le gambe che le tremano così forte da far tremare il legno consunto e sbilenco.
Al piano di sotto, nell’osteria deserta, sono arrivati quelli della Brigata Garibaldi che, fino a quel momento, se n’erano stati nascosti nel casolare delle Quattro Strade. Sono venuti a prendere il podestà e il federale, ma sanno benissimo che non troveranno né l’uno né l’altro e, quindi, zuppi di pioggia dopo la lunga marcia cominciata all’alba, si sono acquartierati provvisoriamente in osteria, e ora vociano chiedendo rumorosamente cibo e vino.
Aldo, l’oste, guarda la moglie che prega sotto la Madonnina, pallido come un morto. Ha fatto ottimi affari servendo fascisti e tedeschi, finché c’era la Repubblica… ma che scelta aveva? Nell’angolo le due figlie, giovani e graziose e già avvezze a servire gli avventori. Magari, con loro, si rabboniscono… magari, davanti a loro, non osano… e se invece, dopo un anno passato a scappare di casolare in casolare, vedendo due ragazze…? No, no. Lo strepito, al piano di sotto, sale di volume, bisogna scendere.
Aldo percorre i gradini, uno alla volta, posando i piedi come se la pietra scottasse, come verso il patibolo. I partigiani sono sporchi, zuppi e armati fino ai denti. Il pavimento in terra battuta dell’osteria è così lordo di fango da far sembrare lo stanzone una stalla.
Il comandante, quello che chiamano Argo, ha trovato per l’occasione un’uniforme con le spalline. Gli ordina da bere per tutti, e tutto sul conto del Comitato: verrà rilasciata regolare ricevuta.
“Non se ne parla nemmeno,” si schermisce l’oste, con la faccia più gioconda che riesce a mettere insieme. “Offre la casa agli eroi, ai patrioti!”
I partigiani applaudono, Aldo si affretta a servirli, il vino e lo scroscio ipnotico della pioggia sembrano calmarli.
A uno, semisdraiato su una panca, sfugge una serie di grotteschi e sgraziati starnuti, i compagni lo deridono.
“Pioggia di merda,” borbotta lui, pulendosi il naso con lo strofinio dell’indice.
All’oste, che si è precipitato a servirgli un altro bicchiere, sfugge un “Buona per i campi”. Più per abitudine e leggerezza, che per altro. La maledetta abitudine e la maledetta leggerezza. Lui non ha campi, innanzitutto, e comunque piove da un mese. Una delle primavere più inclementi che si ricordino. A Strezza, il paesello più vicino, si recita ogni sera il rosario perché il fiume non straripi.
Il partigiano sdraiato rumina brevemente le quattro parole dell’oste, poi improvvisamente scatta in piedi, gli si para davanti e gli punta il mitra allo stomaco. Nella postura e nello sguardo ha la tranquillità terribile dell’ubriachezza lucida.
“Ehi!” Lo apostrofa il comandante Argo. “Che fai?”
“Metto questo fascista al muro,” risponde il partigiano redivivo.
Aldo non replica, si limita ad alzare la mani.
“E te ne sei accordo adesso, che è un fascista?” Sogghigna il comandante. “Guarda, ti ha appena servito un altro bicchiere. Siediti e bevilo, e ringrazia”.
Il partigiano, però, non si rassegna: “Piove da un mese e questo dice che l’acqua va bene per i campi”.
“E li conosci i contadini: sono avidi,” ridacchia il comandante, che viene dalla città e veramente considera i contadini un ostacolo alla rivoluzione proletaria. Non vi si sono forse opposti strenuamente, in Russia? Il tempo dei conti verrà, ma non è questo. Perciò mette una mano sulla spalla del partigiano e lo fa risedere. Nessuno muore quel giorno, né in seguito. Quando finalmente spiove, i partigiani sono troppo ubriachi per dare la caccia ai fascisti rimasti. Questi ultimi, del resto, se la sono già data a gambe, tranne un caposquadra particolarmente fesso che, appunto in quanto fesso, se la caverà con una dose di legnate. Gli altri torneranno tranquillamente in paese, col favore dell’amnistia, qualche tempo dopo.
Qual è la morale di questa storia? Nessuna. Piove a dirotto da due giorni e sono stufo.
Uno spazientito saluto.
Stan