Mia cara Berenice,
anche stasera sul filo del coprifuoco per recuperare il sushi.
Una vita pericolosa, vita da jet set.
Del calciatore Filippo Inzaghi, detto Pippo, si diceva un tempo che fosse sempre sul filo del fuorigioco.
Me lo ricordo, Inzaghi, perché non piaceva a nessuno e perché un tale DJ Angelo mise in giro una canzonetta-parodia molto orecchiabile, “Ad averci i soldi di Inzaghi”. Pare gliela cantassero anche in spogliatoio.
Di che ti stupisci, mia cara? Puoi essere disinteressato allo sport fino all’inverosimile, ma è impossibile non avere a che fare col calcio, in Italia, prima o poi.
Innanzitutto, i Mondiali. Solleticano qualcosa perfino in me, perché, contrapponendo le squadre nazionali, mi ricordano una guerra, senza per questo essere noiosi come le Olimpiadi – nelle quali, per giunta, il medagliere è solitamente scontato.
Ne vincemmo pure uno, nel 2006. Per qualche bizzarro motivo, si festeggiò ovunque sulle note di “Seven Nation Army” dei White Stripes, canzone che sarebbe stata esportata in Italia dalle tifoserie belghe.
Molto più pregevole la parodistica “Siamo una squadra fortissimi” di Checco Zalone, in cui si ironizza sui vizi nazionali e sugli scandali giudiziari che avevano appena travolto il calcio professionistico italiano.
Perfino in Austria, invece, conoscerete forse “Un’estate italiana”, di Edoardo Bennato e Gianna Nannini, inno non ufficiale dei Mondiali di Italia ’90. Era invece ufficiale, temo, Ciao, un orrendo pupazzetto stilizzato adottato come mascotte/logo dell’evento. A conferma della mia scarsa sintonia con l’estetica moderna, Indro Pajaro ne parla in termini entusiastici su Esquire.
Tre sono le principali squadre di calcio italiane, due di Milano e una di Torino, il che già la dice lunga sulla condizione e la coesione territoriale del Paese.
La torinese Juventus, bianconera, è legata alla famiglia Agnelli, a sua volta legata alla FIAT, l’attuale Fiat Chrysler Automobiles.
Il Milan, rossonero, non appartiene più a Silvio Berlusconi, ed è straniera anche la proprietà della milanese Inter, nerazzurra.
È su quest’ultima che voglio soffermarmi, perché ho sempre pensato che il tifo per l’Inter valichi i confini del calcio, sconfinando nel religioso, nel filosofico, nel metafisico. L’Inter non vince mai. Le sue ultime vittorie nelle maggiori competizioni nazionali e internazionali risalgono al 2011. Fra il 2005 e il 2011, tuttavia, la squadra ha avuto una serie positiva, culminata nel celeberrimo triplete dell’allenatore portoghese José Mário dos Santos Mourinho Félix. L’Inter vinse cioè Campionato di Serie A, Coppa Italia e Champions League: caso unico in Italia. Da allora, quella del tifoso interista è tornata a essere la solita vita grama, sorretta solo da un afflato fideistico, sottolineato anche dal ritornello dell’inno non ufficiale della squadra: “Pazza Inter, amala” (AA.VV.). Una valle di lacrime in cui perfino il triplete sembra il perfido scherzo di una divinità malevola; perché, come diceva l’antagonista de “Il cavaliere oscuro – Il ritorno” (GB-USA, 2012), “non può esserci vera disperazione, senza speranza”.
Un cavernoso saluto.
Stan