Mia cara Berenice,
è curioso. Domenica, mentre prendevo il caffè con una collega, si parlava di Venezuela e, proprio stasera, i miei amici venezuelani mi hanno aggiunto a un gruppo Telegram per fare una partita a carte.
Non ci siamo riusciti, a giocare intendo. Il bot di Telegram non faceva altro che sputare stringhe come in certi film sui pirati informatici. Si è molto ironizzato, e giustamente, sull’informatica hollywoodiana. Un mondo parallelo in cui il mouse non esiste e ci si interfaccia con i computer pestando all’impazzata sulla tastiera, in cui la grafica oscilla senza mezzi termini fra realtà virtuale e prompt dei comandi anni ’90, in cui i virus sono coreografici quanto i balletti.
Anche il virtuale, infatti, non sfugge per nulla all’eterna dicotomia fra teoria e pratica, anzi la esibisce su così tanti livelli.
A leggere il Sole 24 Ore, da quando è scoppiata la pandemia siamo tutti in lavoro agile, agilissimo, immersi fino al collo nella vita digitale, in un bagno rigenerante di bit: a fare riunioni in videoconferenza, ad abbeverarci di streaming, a ricevere lezioni a distanza di yoga, ginnastica, cucina, teatro e chissà che altro.
In pratica, le riunioni in videoconferenza sono spesso pietose e i webinar ancora peggio, dopo un anno di pandemia non c’è una sola organizzazione che abbia adottato una piattaforma standard e qui in Belgio sento lamentele continue sulla qualità delle connessioni.
Che dire, poi, della vita nascosta delle macchine, quella loro anima profonda che ci spaventa eppure ci affascina? Perché un computer, venendo riavviato, torna a funzionare? Perché il portatile della Commissione fatica ad aprire le cartelle condivise la mattina e certi pomeriggi non vuol saperne della wi-fi? Se la Regia Società di Orticoltura britannica ha attestato che ha senso parlare alle piante, non potrebbe funzionare anche con un PC?
Strati e strati di wafer di silicio, misteriosi quanto una donna.
Un saluto e… sei certa di voler uscire senza salvare?
Stan
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