Mia cara Berenice,
durante l’assalto al Campidoglio di Washington, è stata vista sventolare una bandiera sarda e sarebbe stato un oriundo rispondente al nome di Jack Angeli a capitanare il pittoresco manipolo.
No, non credo che diffamerà gli italo-americani più di quanto fece, a suo tempo, la criminalità organizzata.
Anzi, io personalmente ho, nei suoi confronti, un debito di gratitudine. Ieri, infatti, per la prima volta dopo molto tempo ho passato la serata ad abbeverarmi avidamente alle notizie; è risorta in me una passione politica sopita da tempo immemorabile.
Potrebbe sembrare strano, per uno spettacolo così grottesco, coreografato a suon di pellicce, elmi cornuti, autoscatti con i poliziotti e altre amenità.
Noi italiani, però, sappiamo bene di non dover sottovalutare il ridicolo; sappiamo che, anzi, il pericolo uccide.
La Marcia su Roma del 1922, che condusse all’instaurazione della dittatura fascista, non fu molto diversa da quanto hai visto in TV ieri. Gli squadristi erano cenciosi, male armati, disorganizzati, perfino affamati. Lo stesso Mussolini credeva talmente poco nell’impresa che ne affidò il comando nominale a quattro dirigenti del Partito Nazionale Fascista, pomposamente definiti “Quadrumviri”, e rimase fino all’ultimo a Milano, in relativa prossimità di quella frontiera svizzera che avrebbe tentato di guadagnare anche nel 1945.
La differenza? Il Capo dello Stato italiano, Re Vittorio Emanuele III di Savoia, consegnò letteralmente il potere ai fascisti su un piatto d’argento; la Marcia fu, si può dire, solo un pretesto.
Negli Stati Uniti, viceversa, la reazione degli organi costituzionali è stata eccellente, a cominciare dallo stesso Vice-Presidente uscente che, dopo essersi rifiutato di compiere colpi di mano in sede di convalida del voto, ha immediatamente condannato senza mezzi termini l’occupazione; secondo alcune fonti, sarebbe stato addirittura lui, e non il Presidente uscente, a far intervenire la Guardia Nazionale.
Fondamentale anche la decisione, da parte dei vertici del Congresso, di riprendere immediatamente la seduta congiunta, concludendo l’iter di proclamazione dei risultati elettorali. Il Presidente uscente ne è uscito indebolito, ha perso i voti di diversi senatori e risulta meno probabile, al momento, la sua ricandidatura per un futuro mandato.
Proprio alla luce di questo happy ending, mi pare ultroneo invocare l’applicazione del XXV Emendamento alla Costituzione federale, che consente al Vice-Presidente e a quelli che noi chiameremmo i Ministri di dichiarare decaduto il Presidente “inabile a esercitare il suo ufficio”.
Innanzitutto, sarebbe con ogni probabilità una forzatura giuridica. La norma si riferisce all’ipotesi di un’inabilità fisica o psichica del Presidente, piuttosto che a una presunta indegnità morale. In ogni caso, il mandato del Presidente uscente è ormai agli sgoccioli. Perché consegnargli l’aureola del martire che sta così disperatamente cercando, crocifiggendolo senza solide fondamenta legali?
Un socratico saluto.
Stan
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