Mia cara Berenice,
stasera ho visto “The Danish girl” (GB-USA-Germania-Danimarca-Belgio-Giappone), in parte ambientato a Copenhagen.
A Copenhagen ci andai anni fa con D., in agosto. Faceva un caldo torrido e c’era la settimana della moda, un’accoppiata che non ti aspetti in Danimarca. Per contro, due cose erano perfettamente rispondendenti agli stereotipi: l’impero delle biciclette che schizzavano a sciami e l’aurea mediocritas della Sirenetta.
Eravamo ancora studenti squattrinati, nella migliore tradizione europea, e si dormiva negli ostelli della gioventù. Mentre raggiungevamo il nostro, venimmo circondati da una torma di ragazzini schiamazzanti. Quando ritennero di averci spaventato a sufficienza, si ricomposero e ci additarono la via dietro l’angolo: “Il vostro ostello è lì”.
L’ostello era stato ricavato da un affumicatoio dismesso e aveva letti a castello a tre piani. Io finii sul più alto e dormii l’intera notta rasente al muro per il terrore di cadere di sotto. Non c’era aria condizionata e il caldo era soffocante.
Vestiti ed effetti personali andavano riposti in armadietti metallici al centro della stanza. La mattina successiva, dopo una notte agitata, constatai con rinnovato terrore che sugli armadietti era stata distesa e lisciata, con grande solennità e accuratezza, una bandiera dei Paesi Baschi.
Cercai di scostarla con i gesti più ieratici, ma, goffo come sono, finii per farla cadere malamente per terra. Sentii convergere su di me – o così almeno mi parve – gli occhi dei baschi che dormivano al piano terra.
“Sorry,” balbettai, “I’m not Spanish!”
In tal modo evitai la garrota.
Agur.
Stan
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