Mia cara Berenice,
per la tua gioia, altre notizie giuridiche arrivano dalla Cina.
L’agenzia Xinhua ha annunciato che il Congresso Nazionale del Popolo potrebbe approvare una nuova legge sull’immunità sovrana per schermare lo Stato, ma anche i cittadini cinesi e gli investitori esteri da liti temerarie connesse alla pandemia.
L’eventuale legge, naturalmente, vincolerebbe i tribunali cinese, mentre le cause stanno fiorendo soprattutto in quelli americani, unitamente a disegni di legge per rimuovere l’immunità sovrana spettante alla Cina.
Il diritto internazionale prevede, con alcune eccezioni, che uno Stato sovrano non possa essere citato in giudizio in tribunali stranieri: par in parem non habet jurisdictionem. La regola si applica solitamente anche alle organizzazioni internazionali, che rispondono solo ai loro tribunali interni.
È una regola che spesso sta stretta e a più riprese i tribunali italiani l’hanno interpretata restrittivamente, escludendo l’immunità prima per gli atti jure gestionis (non chiedermi cosa significhi perché la considero una nozione indefinibile), poi per i crimina juris gentium, nella fattispecie quelli commessi dalla Germania durante la Seconda Guerra Mondiale.
Nel primo caso abbiamo avuto fortuna e fatto scuola a livello internazionale, nel secondo siamo stati platealmente sconfessati dal Tribunale dell’Aja che, incidentalmente, ho avuto l’onore di visitare nell’estate 2009, quando venne pronunciata la sentenza nel caso Costarica contro Nicaragua.
All’epoca ero assistente ed ero stato spedito dall’Università, con rara munificenza, a seguire i corsi estivi dell’Accademia dell’Aja di Diritto Internazionale. L’augusta Istituzione ha sede appunto al Palazzo della Pace, lo stesso del Tribunale, di cui ricordo il lussureggiante e curatissimo giardino, nonché la pessima e costosissima mensa. Assistemmo anche a un’udienza del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia.
L’Aja pullula di organi “stranieri”, compreso il Consiglio dei Ministri che ivi si riunisce, benché la capitale dei Paesi Bassi sia Amsterdam. Se non ricordo male, c’erano anche un Palazzo Reale e dei Ministeri.
D’altronde, la città deve pur barcamenarsi. Non ha i suggestivi canali né il pacchiano quartiere a luci rosse di Amsterdam, non ha l’erba grassa della campagna olandese, madre di quelle pepite di burro giallo tremolante che gli olandesi conservano a temperatura ambiente, in coppette, sugli scaffali delle anguste cucine.
Anguste perché – mi è parso di intendere – non hanno una particolare inclinazione per pentole e padelle. L’armamentario domestico della mia affittacamere si risolveva in un fornello, un rubinetto e poche stoviglie. Il giorno del mio arrivo mi accolse con una quiche lorraine e mi chiese se gradissi anche dei pomodorini. Alla mia risposta affermativa, staccò dei ciliegini o datterini da un raspo penzolante dal muro e me li lanciò attraversò la tavola.
Anguste perché, come sai, le loro case sono strette e alte come campanili. Una notte, dopo per che la terza volta mi ero ingozzato di pannenkoek in uno storico localino di Leida, le mie viscere decisero di farmela pagare come meritavo. Bene, io dormivo sull’abbaino e posso assicurarti che raggiungere l’unico bagno al piano terra senza farmi ammazzare dagli strettissimi e ripidissimi gradini di legno smussato non fu impresa facile; per fortuna, la signora non si svegliò. Mi sembra ancora di vederla, con l’eterno mozzicone di sigaretta fra le mani vizze o a trascinarsi dietro la sedia a sdraio pieghevole per la spiaggia di Scheveningen.
Erano gli anni di gloria del Tribunale Penale Internazionale, quello (molto teoricamente) privo di limiti geografici alla sua giurisdizione. Nei Dipartimenti di Diritto Internazionale, non si parlava e non si scriveva d’altro. Io insistetti con la mia tesi sui porti fino ad andare a sbattere contro la banchina.
Una morte eroica.
Berenice, mortui te salutant.
Stan