Il panino dell’ottimismo

Mia cara Berenice,

nello scriverti dall’Italia devastata, mi sono concesso qualche punta di ottimismo; lo stesso faccio nella corrispondenza con gli amici e con me stesso. Per il catastrofismo, dopotutto, ci sono già i virologi e i funzionari dell’OMS.

Oggi mi concederò la perversione di parafrasare una pratica manageriale, indulgendo nel “panino dell’ottimismo”; scriverò qualcosa di positivo, qualcosa di più problematico e di nuovo qualcosa di positivo.

Cominciamo, dunque. Camicia candida, maniche rimboccate, cravatta, targhetta con “Stan” stampigliato sopra, lavagna a fogli mobili. Tu accomodati a quel tavolo, dove ti aspettano un blocco note, una tazza, altri gadget della società e una bottiglietta d’acqua. Perché ti stiri nervosamente la gonna sulle ginocchia? Ho forse l’aria di una pervertito? Se ho tirato le tendine, è solo per consentire a me e a te la massima concentrazione.

Dunque, ieri sono andato al compleanno di V. Nello scaglionamento degli ospiti, mi sono accaparrato il primo turno, con diritto a due fette di caprese accompagnate da limoncello, tutto fatto in casa: un ottimo affare, direi. Sarà che ho sempre amato gli eventi raccolti, ma un compleanno è sempre un compleanno, tanto che mi è si è completamente sciolto il grumo di tensione accumulato nelle ore precedenti, credo al pensiero di prendere la metropolitana dopo tanto tempo.

Anche sotto quest’ultimo profilo, magari i trasporti pubblici di Roma fossero sempre così. Puntuali e mai affollati, ma nemmeno desolatamente vuoti, comunque presidiati da un numero più che adeguato di guardie giurate dell’azienda municipale. Se non fosse per il degrado delle stazioni, sembrerebbe di stare a Zurigo.

Qui finisce il primo strato di positività. Tornando, anziché cambiare come all’andata, sono sceso a Termini. Volevo vedere quali misure di sicurezza erano state allestite, prendere del sushi da asporto al mio ristorante preferito sulla lounge e, come è mia abitudine, percorrere via Nazionale fino a Piazza Venezia.

Ebbene, a Termini ho trovato, per la prima volta, un luogo davvero spettrale. L’atmosfera cupa era amplificata dai piani interrati e dal ricordo del brulichio di umanità in una stazione centrale simile a un formicaio. Non c’era nessuno nemmeno salendo ai binari e questo forse spiega – in parte – perché ci fossero ancora meno controlli di prima della pandemia: gate aperti, senza nessuna verifica dei biglietti. La lounge, manco a dirlo, era sbarrata, così come gli esercizi commerciali, in misura molto maggiore che altrove.

Nella mia mente, quella pozza nera è tracimata sull’intero centro storico e, di un colpo, ho realizzato quanto quest’ultimo sia condannato, senza turisti e con i ministeriali in telelavoro. Posso solo immaginare la situazione a Venezia. Quando salirò – le frontiere regionali dovrebbero essere riaperte all’inizio di giugno – compirò il rituale masochistico di immergermi nelle calli. Spero di uscirne mentalmente integro, considerato che già un tempo, soprattutto in certe giornate uggiose, l’antica Dominante mi comunicava una tristezza struggente: sentivo le pietre piangere e urlare, e sanguinare dove i puntelli d’acciaio le torturavano nell’accanimento terapeutico sui palazzi vuoti.

La morale che ne ho ricavato è abbastanza inquietante. La Fase 1 non era sostenibile, ma non lo è nemmeno la Fase 2: abbiamo solo guadagnato del tempo.

Bene, direi che ci siamo abbondantemente guadagnati il terzo strato positivo. A Monteverde, devo ammettere, si respira tutt’altra atmosfera. Il quartiere è vivo, con i negozi e il mercato rionale aperti. Anche gran parte dei bar e ristoranti hanno raccolto il guanto di sfida. Villa Pamphili e i parchi minori sono pieni nella giusta misura. Anche la sera, non manca la gente ai tavolini. La notte, prima di addormentarmi, torno a sentire il rumore dei ragazzini che giocano a calcio negli spiazzi.

Nelle chiese parrocchiali, dove da poco sono riprese le funzioni, non sono ancora tornato, ma è più che mai il momento di accendere un cero.

Un caro saluto.

Stan

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