Ancora sull’incomunicabilità fra cultura e pubblico

Mia cara Berenice,

scusa il mio silenzio. Potrei giustificarmi facilmente invocando la Fase 2 e le relative, piccole soddisfazioni che speriamo non si rivelino effimere. Ne cito solo due, la riapertura di Villa Pamphili e il modo in cui tutti, nel quartiere, mi riconoscono e accolgono calorosamente pur con la mascherina addosso.

La verità è che la mia ultima missiva sul rapporto fra cultura e popolo mi ha sfibrato, è stato in qualche modo l’incontro con una vecchia nemesi, un antico rovello; poiché peraltro, in questi casi, l’unica soluzione è cauterizzare a fondo, tornerò di nuovo sull’argomento, confidando nella tua clemenza.

Nella mia precedente, ho ipotizzato come fattore lo spettro emotivo della cultura, non sufficientemente indagato per il sapere scientifico, dato per scontato nella produzione artistica, in entrambi i casi tendente a restringersi troppo verso la sua estremità negativa. Quest’ultima viene infatti utilizzata tanto dallo scienziato quanto dall’artista per attirare l’attenzione del pubblico accademico e non, così come avviene con i titoli allarmistici della stampa, talvolta nemmeno coincidenti con il corpo dell’articolo. Nel pubblico annovero anche l’autore stesso, bisognoso di autoconvincersi dell’importanza della crociata intrapresa.

Il problema dell’incomunicabilità mi colpì in pieno viso, come un maglio, durante il dottorato di ricerca, quando cominciai a frequentare i primi convegni. Perfino a un novizio era evidente come gli accademici parlassero solo a sé stessi. Il pubblico, coerentemente, era costituito solo da docenti e ricercatori. Pochi gli studenti, a meno che non venissero mobilitati dai rispettivi titolari di cattedra; poco numerosi perfino gli avvocati, a meno che l’evento non desse diritto a crediti per la formazione professionale obbligatoria.

Alla base di ciò c’era, in parte, il meccanismo delle carriere accademiche, funzionanti in tutto il mondo per cooptazione.

Mi restava però la sensazione di qualcosa di più profondo, e questo qualcosa credetti di identificarlo nell’estrema frammentazione e specializzazione della conoscenza.

Un professore di diritto a tempo pieno, che non eserciti l’attività forense, non ha mai messo piede in un tribunale. Quel che è peggio, un professore cosiddetto “a mezza fascia”, cioè con tanto di prestigioso studio legale, non appena varca le porte dell’università si comporta esattamente come il collega “a fascia piena”.

Un professore di diritto penale non solo non sa nulla di diritto civile o amministrativo – o quantomeno non si azzarda a parlarne -, ma avrà una decennale specializzazione nel reato di truffa o di peculato, o addirittura in un particolare aspetto di tale crimine, e per nessun motivo si azzarderà a mettere il piede fuori da quel pomerio, dove l’autorità consolare potrebbe decapitarlo.

In parte è un processo naturale. La cultura si stratifica, diventa più sofisticata e sempre più difficile da imbracciare e padroneggiare in modo unitario. Le conseguenze di questo stato di cose, però, sono due.

In primo luogo la cultura, così frammentata, si indebolisce.

In secondo luogo la comunicazione e la divulgazione – anzi, specifici aspetti di esse – diventano appannaggio di ulteriori specialisti (consulenti, pubblicitari, etc.), abilissimi nel diffondere un messaggio, ma privi della padronanza dei relativi contenuti.

Da ciò, più che da una presunta abulia del popolo, deriva il divorzio di quest’ultimo dalla cultura, per nulla ineluttabile, se pensi che popolazioni molto più antiche e illetterate si riversavano nei teatri per Euripide, Plauto e Shakespeare. Ancora oggi, sulle vituperate reti sociali, certi divulgatori scientifici capaci di mettere insieme sostanza e messaggio godono in Italia di un seguito quasi messianico.

Ricapitolando a beneficio della tua giustificata impazienza, bisognerebbe sfuggire alla tentazione di usare sistematicamente e pigramente le tinte più fosche, non consentire al proprio campo di specializzazione di farci dimenticare la cultura generale e l’interdisciplinarietà, rispettare il proprio pubblico. Nello specifico ambito accademico, questo significherebbe anche imporre al corpo docenti di non trascurare la didattica per occuparsi della sola ricerca, fonte di indici bibliometrici e avanzamenti di carriera.

Carissima, ti chiedo perdono, spero davvero di essermi sgravato di questo peso e di poter tornare, nelle mie prossime missive, ad argomenti più leggeri.

Qui in Italia si dicono meraviglie del vostro deconfinamento che, ovviamente, è stato prontamente recepito in Trentino Alto Adige.

A presto, speriamo.

Stan

Una replica a “Ancora sull’incomunicabilità fra cultura e pubblico”

  1. Bravissimo

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