Mia cara Berenice,
in una missiva precedente, ti ho esposto le mie difficoltà nell’ordinare il cornetto a Roma. Pur non avendo riscontrato molta empatia da parte tua, voglio proseguire per la stessa strada e disvelarti un’altra pietanza relativamente difficile da trovare nell’Urbe: il club sandwich.
Una primula rossa dei menù, tanto reali quanto virtuali. Geolocalizzando sul mio indirizzo la più nota piattaforma di consegne a domicilio, e nonostante l’aumento esponenziale di ristoranti e pub iscritti, lo offre un solo esercizio e anche in quel caso si tratta, in realtà, di una mezza porzione: occorre ordinarne due, uno classico e uno al pollo.
Già ti vedo inarcare le sopracciglia diafane e battere il piedino arcuato a terra: “Il club sandwich c’è, quindi!”
Certo che c’è. Ante quarantena, me lo procuravo a un pub sulla lounge di Termini; ma, allora come ora, non arriva accompagnato dalla rituale salsa rosa.
“Quanto la fai lunga, con questo club sandwich!”
Mia cara, ma devi metterti nei panni di un cittadino delle Venezie, dove i club sandwich spuntano come i funghi su certi ceppi del bosco di L. L’ultima volta che salii, andai al centro commerciale di C., per farmi spalmare della resina protettiva sul cellulare. Per pura curiosità, salii alla food court: una decina di locali diversi e tutti con il club sandwich nel menù.
“E a chi importa delle tue Venezie?”
Non raccolgo la provocazione, perché quella del club sandwich è una storia internazionale. Questo capolavoro architettonico ha visto la luce, con ogni probabilità, sulla Costa Orientale degli Stati Uniti, sul finire del XIX secolo. Pura poesia anglosassone che il club condivide con tutti i sandwich, così battezzati in onore del conte di Sandwich.
Un’internazionalità così spiccata che esiste il Club Sandwich Index. Compilato dalla piattaforma americana Hotels.com, utilizza questo piatto universale come parametro per confrontare il costo dei menù alberghieri nel mondo.
Game, set, match.
Buon appetito.
Stan