Mia cara Berenice,
sono in un’aula a uno dei piani superiori dell’Università di T. – polo didattico patavino, piantato e generosamente innaffiato da una fondazione bancaria locale, ai tempi delle vacche grasse.
Sono seduto davanti al professore di Diritto del Lavoro – un uomo simpatico, baffuto – e al suo assistente.
“Quali tipi di sciopero esistono?”
“I tipi più vari…” rispondo, “lo sciopero a singhiozzo, a scacchiera…”
Finezze tipicamente italiche, in effetti. Anni fa, il solito giornalista anglosassone si stupiva dei nostri scioperi così vari e ricorrenti, “tanto che esiste un sito ufficiale per censirli”.
Ieri ero in attesa di entrare dal fruttivendolo – o fruttarolo, come lo chiamano qui a Roma – e i miei compagni di anticamera, smessa la fila delle occasioni precedenti, si erano disposti a scacchiera. In questo modo, potevano rispettare la distanza di sicurezza con minor dispendio di spazio e scambiare più facilmente quattro chiacchiere; tre donne, prima di entrare, formarono un vero e proprio capannello, sempre senza violare…
“Tenete la distanza di sicurezza, signori!” Ammonì l’inserviente del supermercato dall’altra parte della strada, attraverso un piccolo megafono.
Parlava ai suoi clienti in fila indiana, ovviamente, non a noi pedoni. Chi oserebbe contestare la maestà della scacchiera? Avrai visto quel magnifico meme in cui la Regina Elisabetta e un vescovo anglicano stanno in piedi sul pavimento a scacchi di una chiesa: “La Regina può mangiare l’alfiere in una mossa” (alfiere, in inglese, si traduce “bishop”).
Perfino i virologi, signori di questo tempo, hanno reso omaggio alla scacchiera, riesumando la vecchia storia dei chicchi di riso o di grano sulle caselle per illustrare la potenzialità del contagio.
Nessuno, invece, ha proposto la metafora della partita a scacchi con il virus, in sostituzione di quella bellica attualmente imperante e di cui pure gli intellettuali si lamentano tanto… che dire, la pars destruens viene sempre più facile della pars construens.
Un caro saluto.
Stan
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