Toponomastica e tecnocrazia

Mia cara Berenice,

apprendo colpevolmente solo ora che due ospedali d’emergenza, aperti a tempo di record dalle Autorità cinesi nel Wuhan, si chiamano Huoshenshan e Leishenshan, cioè rispettivamente Monte del Dio del Fuoco e Monte del Dio del Tuono.

Nomi da Città Proibita, dove troviamo le Torri della Campana e del Tamburo, la Porta della Potenza Divina, quella della Suprema Armonia, il Palazzo della Purezza Celeste, quello della Tranquillità Terrena, quello della Longevità Tranquilla, del Principio Supremo, della Primavera Eterna, dell’Onore Terreno, della Grande Benevolenza, della Grazia Celeste e così via.

Vedere questa antica poesia tratteggiata, ancora una volta, sulle cartine geografiche del Wuhan rafforza la mia sensazione – solo di questo si tratta, non essendo io un sinologo – che la Repubblica Popolare sia ancora fortemente legata alla sua eredità storica e confuciana. Non poteva essere altrimenti, del resto, dato il peso millenario di quest’ultima e nonostante i rabbiosi sforzi di sradicarla con la Rivoluzione Culturale.

Le stesse modalità con cui il Partito ha abbandonato in parte l’economia pianificata, senza rinnegare formalmente nulla del bagaglio ideologico maoista, mostrano un’attenzione alla continuità che non stupisce, in un Paese retto così a lungo da Imperatori appellati Signori dei Diecimila Anni.

Questo non significa che la Cina sia, per DNA, allergica alla democrazia. I manifestanti di Piazza Tiananmen la invocarono alle porte della Città Proibita e ci volle tutta la forza brutale dell’Esercito di Liberazione Popolare per metterli a tacere. Una sorta di Rivoluzione Francese fallita, in cui l’Imperatore è rimasto saldamente sul trono e con pieni poteri, senza dover concedere costituzioni, convocare assemblee o nominare primi ministri.

Esiste, tuttavia, la concreta possibilità che la democrazia non arrivi, soprattutto se la tirannide del Partito continua a sembrare illuminata. Perfino ora, dopo essere stata colpita per prima dalla pandemia, la Cina sembra in grado di alzarsi in piedi, prima e meglio delle altre Potenze.

Facendo una classificazione necessariamente di grana grossa, esistono tre grandi forme di governo: la democrazia, la tirannide (intesa in senso lato) e la tecnocrazia. Quest’ultima è piuttosto rara ed è un regime non democratico in cui esistono determinati pesi e contrappesi e nelle cui fila, per l’effetto, si ascende in modo almeno approssimativamente meritocratico.

È una tecnocrazia, in questo senso, la Chiesa Cattolica, che ancora sopravvive, si ramifica in tutto il mondo e, dopo aver sfidato il Patto di Varsavia, può ancora permettersi qualche braccio di ferro con la Cina. È stata una tecnocrazia la Serenissima Repubblica di Venezia, anch’essa durata ben oltre i limiti della sua vita naturale. Lo sono forse state, con grosse imperfezioni, deviazioni e instabilità, le città-stato greche e l’Antica Roma, almeno in alcune fasi repubblicane e imperiali. Ebbero pure elementi transitori di tecnocrazia le democrazie ottocentesche, in cui il potere del corpo elettorale era limitato dai requisiti per la titolarità del diritto di voto, nonché dall’influenza della Corona e dell’aristocrazia.

Sto forse sostenendo la superiorità della tecnocrazia – ammesso che queste mie categorie abbiano senso – sulla democrazia? Assolutamente no, quest’ultima rimane comunque più etica e può avere un tasso di efficienza del tutto soddisfacente. Soprattutto, le tecnocrazie non si creano a tavolino, nascono in contesti e humus del tutto peculiari. Nella dicotomia democrazia-tirannide, restano eccezioni, per quanto ingombranti e vistose.

Faccio i migliori auguri alla democratica Austria per la prime, timide riaperture. Ci infondete coraggio e siamo con voi.

Un caro saluto.

Stan

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