Il pranzo domenicale

Mia cara Berenice,

fra le tredici e le tredici e trenta, un fattorino mi consegnerà mezzo pollo arrosto, patate al forno e verdure grigliate.

Ho preteso il pollo arrosto perché simbolo del pranzo che facevo nelle Venezie, interrottosi – ahimè – ben prima della pandemia.

Il pranzo domenicale – l’unico che vi sarà sempre per me – seguiva un protocollo estremamente preciso che cominciava a dipanarsi già il sabato.

Sarebbe impossibile peraltro comprenderlo, senza che io ti descriva la figura intorno alla quale ruotava tutto: nonna P.A. Come molte donne venete, aveva lavorato come domestica e cuoca in Italia e in Svizzera, servendo e tiranneggiando primari, notai, avvocati, piloti delle British Airways.

Donna dal carattere fortissimo come tutti i suoi fratelli, conseguì la patente di guida quando questo era ancora molto raro, per il suo sesso. Vivo nonno P., uomo dalla solida impostazione patriarcale, mordeva il freno; morto lui, esplose in tutta la sua pienezza, come una supernova.

Sabato pomeriggio inforcavo il motorino e la raggiungevo nella sua casa a ridosso dell’alta collina, sul cui cucuzzolo era piantato, alle spalle della chiesa, il cubo di cemento dell’acquedotto municipale. Il massiccio edificio sorgeva su una curva a gomito terrazzata da cui si dominava, come da una piazzaforte, l’intera pianura corrugata fino al mare: nelle giornate limpide, si distinguevano le gru del porto di Venezia.

Prima che la Serenissima estendesse il suo dominio sulla Terraferma, in corrispondenza della chiesa sorgeva il castello del feudatario e al posto di casa di nonna la chiesa con relativo cimitero. Capitava ancora che, zappando l’orto, dalla terra grassa guizzasse qualche osso umano. Anni dopo, quando mio zio volle abbattere e ricostruire l’ala di servizio per convertirla in un’ulteriore abitazione, la Sovrintendenza mandò da Venezia due ragazze con guanti e tute protettive che estraevano ogni singolo osso, lo spazzolavano e lo imbustavano; nonna le derideva, ricordando quante ossa identiche erano andate, nei decenni, in pasto ai cani o ai gatti.

Nonna era in cucina o in uno dei suoi due cucinini, o ancora in soffitta a stirare. Si prendeva il caffè in sala da pranzo, sotto la veranda o sotto il pergolato e si parlava del più e del meno. Era una conversazione che invariabilmente ti risucchiava nel passato, perché nonna lottava ancora contro i suoi morti: il nonno, i suoceri, il prete, la perpetua. Quando scendeva in cimitero a cambiare i fiori e rassettare le tombe, arringava le lapidi con dure, appassionate requisitorie.

Alla fine, pronunciava la frase rituale: “Vieni su, domani?”

Il menù poteva variare, perché nonna non era certo priva di fantasia. Ricordo un risotto servito all’interno di una zucca scavata, una macedonia con panna all’interno di un’arancia e un altro risotto alle castagne con una spruzzata di chicchi di melograno a crudo. C’erano però dei piatti leggendari, veri capisaldi del suo repertorio. Il pollo arrosto, appunto. Il coniglio. Il fagiano o l’anatra serviti con salsa peverada che preparava – se non sbaglio – con maiale e fegato e abbondante limone. Le lasagne gonfie di ragù di carne, formaggio e, a volte, funghi colti nei boschi vicini o in quelli delle Alpi.

Ti accoglieva nella cucina-sala da pranzo con truce cipiglio. Come Belzebù, era ammantata di calore, perché tutto entrava e usciva dalla cucina economica a fianco del tavolone, vero cubo di Rubik culinario.

La regola prevedeva che ci si presentasse a mezzogiorno in punto. I miei zii e cugini, che avevano la latteria, lo spaccio, il bar e il ristorante da gestire, spesso trasgredivano. Nonna faceva fuoco e fiamme e, talvolta, era capacissima di scodellare il primo nei piatti vuoti. Quando finalmente, alla spicciolata, i commensali arrivavano, si metteva assisa a capotavola, impettita. Ci chiedeva se gradissimo il cibo, aggiungendo subito dopo che, in caso contrario, il circondario era pieno di ristoranti.

Ci si ritirava sul presto, dopo il caffè, nulla a che vedere con i pranzi in famiglia del Mezzogiorno d’Italia. Ed era meraviglioso.

Qualche anno fa, come spesso accade per questi anziani così formidabili, la salute di nonna crollò di colpo. Dopo aver tentato invano di far convivere lei e il suo caratteraccio con delle badanti, fummo costretti a ricoverarla in una casa di cura dove ora è sigillata, senza poter ricevere visite nemmeno dai parenti stretti.

Tutto finisce, la pandemia non è altro che mille gocce di oblio concentrate in uno tsunami. Purtroppo, come disse una volta la Professoressa P.F., “oltre un certo limite, la quantità si traduce in qualità”.

Buona domenica.

Stan

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