Mia cara Berenice,
qui in Italia, la pandemia sta facendo impennare le vendite de “La peste” di Camus. Qualcun altro consiglia la lettura del “Decameron” di Boccaccio.
Dal canto mio, per puro caso mi ritrovo fra le mani “La luna e i falò” di Cesare Pavese, vero capolavoro ambientato nell’Italia rurale del primissimo dopoguerra.
All’Autore riesce, in una rara alchimia, la sintesi fra attaccamento viscerale alla terra e rassegna puntuale, cruda e spietata, della miseria, dell’arretratezza e delle ingiustizie delle campagne.
Questa bizzarra dicotomia contribuisce forse a spiegare perché, ancora oggi, sia così diffuso il rimpianto di quel mondo iconograficamente bucolico, ma concretamente fatto di rachitismo, pellagra, capifamiglia e fattori dittatoriali, servitù della gleba camuffata da mezzadria, latifondisti e preti rapaci.
Particolarmente fanatico nel difenderne la causa è un altro autore a me molto caro, Giovannino Guareschi, che forse conosci per la trasposizione cinematografica dei suoi romanzi e racconti su don Camillo e Peppone.
Ancora oggi, come dicevo, il ritorno alla campagna è vagheggiato da destra e da sinistra. La prima ci vede filiere corte e nazionali, autosufficienti, virilità e ancoraggio sicuro alla banchina cementizia degli antichi valori. La sinistra meno industria, capitalismo e globalizzazione, più orizzontalità e solidarismo, magari una maggior facilità di integrazione per gli immigrati, più facilmente assorbibili dalla filiera agricola.
Su questa inedita convergenza vanno a innestarsi, naturalmente, l’ambientalismo, l’animalismo, il biodinamico, l’ecologismo e un’intera nebulosa new age dai contorti piuttosto polverosi e indistinti.
La pandemia, infine, ha dato nuovo impulso a tutto ciò, aggiungendovi una comprensibile tinteggiatura millenaristica. Madre Natura è stanca di noi, gli animali sono usciti dagli zoo e ci hanno chiuso in gabbia, la tragedia deve essere l’occasione per un ripensamento radicale del nostro modo di vivere e del nostro modello produttivo, il vero virus siamo noi.
Ora, io un’idea abbastanza precisa su come, nel mondo di Pavese, si sarebbe affrontata la pandemia. Molto semplicemente, si sarebbe lasciato morire mezzo milione di anziani quasi senza battere ciglio. Qualche ordinanza prefettizia e sindacale, carabinieri a cavallo con le mascherine, la colletta di qualche società benefica, magari un potenziamento delle condotte mediche e poco altro. Anche l’attenzione mediatica sarebbe stata non dico nulla, ma decisamente più annacquata.
Tanto premesso, un certo ritorno alla campagna potrebbe pure esserci. La crisi economica, unita alla difficoltà di far arrivare manodopera straniera, potrebbe facilitare il reclutamento di braccianti autoctoni. Potrebbe esserci un rifiorire di imprese agricole, una tendenza rilevata già prima della pandemia. Le filiere potrebbero diventare più corte, ma su questo ho maggiori dubbi, dato che le merci possono circolare liberamente. L’industria e le città, luoghi naturali di assembramento, potrebbero perdere terreno in favore della campagna. Mi aspetto anche un forte impulso all’agriturismo, in grado di consentire vacanze a breve distanza, isolate e rilassanti.
Anche durante le guerre, del resto, la campagna è sempre stata il locus amoenus più vagheggiato: più facile procacciarsi cibo, maggiore lontananza dai bombardamenti, stacco dall’estetica meccanizzata dei conflitti moderni.
Sei dunque pronta ad abbracciare gli agnellini, come Maria Antonietta al Petit Trianon?
Stan
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